sabato 24 agosto 2013

Sheik e la sconfitta di noi tutti

Nessuno dei cinque continenti sembra ancora abituato ad assorbire sconvolgimenti concettuali, a deglutire storie di ordinaria umanità, a tollerare il prezzo della diversità, a gestire la democrazia. E il sesto, quello del pallone, ancora meno. Se il calcio è guerra di religione, non c’è assoluzione per niente e per nessuno. Le regole non scritte impongono la propria legge: tutto ruota attorno all’onore. Della maglia e delle fede di chi vive per la maglia. L’onore, prima di tutto: e stop. Che non va scalfito: soprattutto dall’avversario. Il più interessato, cioè, a denigrare, ad insultare. Il calcio, del resto, è un circolo tribale. E guai a ridursi nelle condizioni di essere derisi. E trafitti. Emerson Sheik è un attaccante brasiliano, in dote ad una delle formazioni più amate e decorate del paese sudamericano, il Corinthians. Ovvero, anche il club tradizionalmente più vicino alla materia dei diritti del singolo (ricordate la Democracia Corintiana instaurata da Sócrates e compagni nel mezzo della dittatura militare, negli anni ottanta del secolo appena trascorso?). Ecco, Sheik è una persona normalissima. Con una famiglia già formata. Eppure, ritratto – per scherzo, per gioco, per quella strana mania di spedire in rete tutto ciò che ci riguarda e che riguarda chi è prossimo a noi – in una foto compromettente, scattata e postata da un social network. In cui si scambia – per scherzo, per gioco, per quella strana mania di voler vivere ogni momento sul palcoscenico – un’effusione con un altro uomo: facilmente decodificabile tra quelle sconvenienti. E ovviamente condannata: in particolare dalla gente che tifa per la formazione paulistana. Assalita, dunque, nell’intimo del proprio orgoglio, assaltata nei meandri della propria fede. E, comprensbilmente, nuovo oggetto di scherno nemico: sponda Palmeiras, soprattutto. La gente, il mondo e, in particolare, il pallone non sono ancora preparati alle rivoluzioni culturali, dicevamo. Inutile girarci attorno. Così, la Fiel, la torcida corintiana, ha immediatamente preteso un chiarimento. Anzi, pubbliche scuse. E Sheik, travolto dai riflettori, ha vissuto male questo momento inatteso: pagando il nervosismo accumulato anche con l’espulsione in Coppa del Brasile, nel corso di un match (perso) contro la Luverdense, formazione di terza serie. Fino a cedere, sotto la pressione delle convenienze. Quindi, rammarico e autocensura, tutto in un incontro appositamente organizzato con la tifoseria organizzata. In sostanza, una formale richiesta di perdono: per non aver commesso, è questo il lato più triste della storia, alcun crimine. E, tra le parole spese, una motivazione di fondo: «In un ambiente pieno di rivalità e provocazioni, qualsiasi questione può essere motivo di speculazione». Ecco l’ennesima, irrimediabile sconfitta. Di tutti.

venerdì 2 agosto 2013

Calcio, affari e l'incertezza delle regole

Blatter spinge, l'International Board si adegua, la norma cambia. Il potere del presidente, monarca assoluto del pallone che ancora riesce a sopravvivere a se stesso, si estende. E si riduce quello dell'unico organo calcistico autenticamente indipendente, almeno sino a pochi anni fa. Da questa stagione, la regola del fuorigioco, concetto di mille battaglie verbali, si completa e si complica. L'offside, del resto, è quel buco nero che inghiotte tutto e tutti: anche la storia e la tradizione. Il pallone si evolve: succede, quando conviene a chi può. E qualunque cosa è possibile, nel nome del progresso. E del business. La new economy del calcio vuole un gioco più facile: che, proprio per questo, diventa sempre più difficile. Un gioco che, oggi più di ieri, sappia ingolosire chi muove i fili. E, dunque, chi ne trae profitti. La norma, in sostanza, si piega alle logiche della convenienza e si abbruttisce. Orami è deciso: dalla stagione agonistica appena partita, quando un giocatore si dirige verso la palla, andrà considerata anche la distanza e la possibile interferenza dell'attaccante nei confronti del difensore. Materia buona per alzare il quoziente di discrezionalità del direttore di gara: esattamente quello di cui faremmo volentieri a meno. Dunque, per ingigantire il peso dele polemiche, delle accuse e degli abusi. E per alimentare il livello di acidità dei nostri campionati, ovviamente. L'equazione è semplice: meno vincoli regolamentari, più occasioni da gol, più spettacolo. Sarà. Persino Nicchi sembra aver bocciato l'idea. Alla quale, lui per primo, dovrà adeguarsi. L'allenatore degli arbitri italiani prevede nuovi bordellacci infami: e fa bene a temerli. Tornare indietro, però, non si può: è già tutto deciso. Seguendo un disegno chiaro: difettando la certezza della pena (o, in questo caso, del regolamento), amministrare il sottobosco e dirigere il traffico in bilico tra il lecito e l'illecito è più facile. Nel pallone come nella quotidianità di tutti noi. E chi ci governa lo sa bene.