Nessuno dei cinque continenti sembra ancora abituato ad assorbire sconvolgimenti concettuali, a deglutire storie
di ordinaria umanità, a tollerare il prezzo della diversità, a gestire la
democrazia. E il sesto, quello del pallone, ancora meno. Se il calcio è guerra
di religione, non c’è assoluzione per niente e per nessuno. Le regole non
scritte impongono la propria legge: tutto ruota attorno all’onore. Della maglia
e delle fede di chi vive per la maglia. L’onore, prima di tutto: e stop. Che non va
scalfito: soprattutto dall’avversario. Il più interessato, cioè, a denigrare,
ad insultare. Il calcio, del resto, è un circolo tribale. E guai a ridursi
nelle condizioni di essere derisi. E trafitti. Emerson Sheik è un attaccante brasiliano, in dote ad una delle formazioni più amate e decorate
del paese sudamericano, il Corinthians. Ovvero, anche il club tradizionalmente
più vicino alla materia dei diritti del singolo (ricordate la Democracia Corintiana
instaurata da Sócrates e compagni nel mezzo della dittatura militare, negli anni ottanta del secolo appena trascorso?). Ecco,
Sheik è una persona normalissima. Con una famiglia già formata. Eppure,
ritratto – per scherzo, per gioco, per quella strana mania di spedire in rete
tutto ciò che ci riguarda e che riguarda chi è prossimo a noi – in una foto
compromettente, scattata e postata da un social network. In cui si scambia – per
scherzo, per gioco, per quella strana mania di voler vivere ogni momento sul
palcoscenico – un’effusione con un altro uomo: facilmente decodificabile tra
quelle sconvenienti. E ovviamente condannata: in particolare dalla gente che
tifa per la formazione paulistana. Assalita, dunque, nell’intimo del proprio orgoglio,
assaltata nei meandri della propria fede. E, comprensbilmente, nuovo oggetto di scherno nemico:
sponda Palmeiras, soprattutto. La gente, il mondo e, in particolare, il pallone
non sono ancora preparati alle rivoluzioni culturali, dicevamo. Inutile girarci attorno. Così, la Fiel, la torcida corintiana,
ha immediatamente preteso un chiarimento. Anzi, pubbliche scuse. E Sheik,
travolto dai riflettori, ha vissuto male questo momento inatteso: pagando il
nervosismo accumulato anche con l’espulsione in Coppa del Brasile, nel corso di
un match (perso) contro la
Luverdense, formazione di terza serie. Fino a cedere, sotto
la pressione delle convenienze. Quindi, rammarico e autocensura, tutto in un
incontro appositamente organizzato con la tifoseria organizzata. In sostanza,
una formale richiesta di perdono: per non aver commesso, è questo il lato più
triste della storia, alcun crimine. E, tra le parole spese, una motivazione di
fondo: «In un ambiente pieno di rivalità e provocazioni, qualsiasi questione
può essere motivo di speculazione». Ecco l’ennesima, irrimediabile sconfitta. Di tutti.