Eccoli, i Mondiali. Impazientemente attesi, come sempre. E,
una volta di più, deludenti. Per i contenuti e anche per quello che
circumnaviga la kermesse tutta. Kermesse partita c on fatica: tra
polemiche, contestazioni popolari, problematiche strutturali e lutti. E
lievitata male, anche tecnicamente: Spagna subito fuori, Italia ed Inghilterra
pure, Portogallo e Russia a rimorchio, Brasile zoppicante, Argentina così e
così. Dove le indecisioni arbitrali (poche, fortunatamente) fanno discutere – e
non solo a queste latitudini – e determinati comportamenti, sul campo, lasciano
pensare. Un nome per tutti, Suárez,
artigliere dell’Uruguay che sa mordere. In tutti i sensi: dietro un pallone e
sulle spalle dell’avversario. Nel caso specifico, Chiellini: uno dei simboli
dell’Italia debole e molle che perde il confronto diretto e che se ne torna
immediatamente a casa. Suárez
è sangue bollente e istinto feroce, si sa. Ed è, soprattutto, recidivo: il
campionato inglese, dove si esibisce settimanalmente, ci offre altri episodi
del medesimo spessore. Peccato, però, che il suo selezionatore Tabárez, universalmente ricordato come
persona garbata e per bene, argomenti di falso moralismo o di moralismo a buon
mercato, oltrepassando il limite del diritto alla tutela del proprio
attaccante. E quello del buon senso. Anche perché la morale c’entra poco:
lasciando stagnare un gesto volgare, ma soprattutto violento. Che il
regolamento, almeno nel pallone, sanziona. Punto. E poi c’è Mario Balotelli.
Arrivato in Sudamerica più sereno del solito, in gol contro l’Inghilterra e,
infine, affondato dalle critiche esterne e dal risentimento dello stesso
spogliatoio azzurro. Figurina o no, il ragazzo ha sostanzialmente fallito la
prova, l’ennesima. Dentro e fuori dal campo: se e è vero, come rivela un organo
di stampa, che avrebbe digerito assai male un rimprovero di Prandelli durante
l’intervallo del match con l’Uruguay. Si parla persino di oggetti volanti, in
quei momenti: situazione, questa, che gli sarebbe costata la sostituzione e,
dopo il novantesimo, gli acidi attacchi di Buffon e De Rossi. Ma, del resto, le
esperienze di questi anni ci spingono a pensare che il commissario tecnico
abbia voluto provare a vincere una sfida, evidentemente persa: quella di
trasportare Balotelli da uno status
di eterna e acerba promessa a quello di pedina decisiva e internazionalmente
proponibile. Sacrificando, magari, il minor tasso tecnico e atletico e la
superiore affidabilità di altri. Rimasti a guardare: davanti ad un televisore o
in panchina. Eppure, non ci sta neppure bene che il fallimento della Nazionale
in Brasile possa essere unicamente ascritto a Balotelli. I punti sono altri: è
mancata la mentalità della squadra che sa quello che vuole, ha difettato
l’autorità nelle situazioni di gioco più determinanti. La formazione dell'ormai dimissionario
Prandelli, contro Costa Rica e Uruguay, non ha saputo imporsi, mai. Attendendo
l’avversario, sempre e comunque. Piegandosi, anche, all’ineguagliabile stress
del campionato italiano, che toglie puntualmente qualcosa alla freschezza
atletica e alla brillantezza del gruppo. Ma, soprattutto, è riemersa quella
verità che conoscevamo da tempo e che, in tanti, si sono affrettati a
disconoscere o a dimenticare per convenienza: il livello del calcio, sotto le
Alpi, oggi è questo. Piaccia o no pure a chi, in Italia, adesso sta vincendo. E
anche abbastanza agevolmente.
mercoledì 25 giugno 2014
lunedì 12 maggio 2014
Etici sì, autolesionisti no
Questa storiella tutta
italiana del codice etico applicato al pallone (meglio ancora, alla Nazionale
gestita da Prandelli) comincia onestamente a sanare. Giusto per esprimersi in
lingua corrente e diretta. Primo, perché – in campo – contano innanzi tutto la
tecnica, la tattica, l’ardore e qualche altra qualità. Mentre il perbenismo si
persegue anche con punizioni esemplari, magari: da applicarsi nel campionato,
se il reato è consumato all’interno della competizione. E in campo
internazionale, se la mala azione è consumata con la casacca azzurra. Senza
dover necessariamente ricorrere a operazioni un po’ bacchettone, tanto per
intenderci. Secondo, perché - in prossimità dei Mondiale – la questione rischia
di finire seppellita da tonnellate di polemiche: molte delle quali
assolutamente gratuite, dunque inutili. Soprattutto se altri cattivi pensieri
si accodano a quelli di sempre. E, terzo, perché l’argomento presuppone
seriamente un pericolo male calcolato: quello di tramutarsi in un feroce
autogol. Pericolo dai cui effetti, peraltro, il coach sta cominciando a
contrapporre le prime contromisure: ignorando semplicemente il problema, quando
è il caso di ignorarlo. Ma, al di là di tutto, le fondamenta del concetto così
caro ai vertici federali e allo stesso commissario tecnico scricchiolano non
poco, ormai. Chi sbagliava, pagava: da De Rossi a Balotelli, da Osvaldo a Criscito. Così è stato, sin qui. L’ultimo sanzionato,
in ordine di tempo, si chiama Destro: quattro giornate di squalifica rimediate
nel corso di questa stagione e, di conseguenza, il blocco delle convocazioni
con la selezione principale. Colpevole sino in fondo oppure no, non importava:
bastava la prima sanzione, per innescare la seconda. La penultima giornata di
campionato, invece, dispensa un altro caso spinoso: nel match di Roma, dove la Juve arriva già scudettata,
Chiellini si libera fallosamente di Pjanić. Il direttore di gara non vede e non
interviene: ma le telecamere spiano, come sempre. Materiale buono per applicare
la prova tv: tre giornate a Chiellini. Quanto basta per bloccarlo pure in
ottica Nazionale: come accaduto per Destro e per altri, prima di lui. Ma il
Mondiale si avvicina. E si avvicina davvero. E il difensore toscano non si
sostituisce facilmente. Condizione sufficiente per scartare l’ipotesi del gesto
violento: Prandelli, cioè, l’assolve. Con coraggio e pragmatismo. Annunciando
di volerlo inserire ugualmente nella lista dei trenta preconvocati per il
Brasile. E smentendo, così, se stesso e la linea etica perseguita da quattro
anni. Pensiero di una sera di maggio: Destro, e chi come lui, non sono pedine
imprescindibili. Chiellini sì. Etici sempre, ma non autolesionisti. E
tatticamente accorti. E’ l’Italia che va. E’ l’Italia che deve andare.
lunedì 28 aprile 2014
Il Torino e la domenca di troppo
Il quattro maggio è il giorno della memoria, nella Torino granata. E
anche in tutta l’Italia del pallone. E ogni quattro maggio, da sessantacinque
anni, si sale sul colle di Superga, per raccogliersi e per ricordare. E’ un
rito, una tradizione. Un’esigenza. Questa volta, il quattro maggio coincide con
la domenica del pallone. Che segue il sabato del pallone e procede il lunedì
del pallone: il sistema, si sa, progetta il business
e pretende che sia festa tutti i giorni (ma poi, in fondo, che sarà mai: e poi
ci siamo un po’ tutti abituati, forse perché ci va benone anche così). Ad ogni
modo, domenica quattro maggio si gioca. O meglio: gioca anche il Torino, a
Verona, sponda Chievo. Come da calendario: quello che, puntualmente, viene
stravolto da anticipi e posticipi più o meno telegenici. Ma, se il Torino
gioca, la partecipazione al giorno della memoria diventa un’operazione
logisticamente quasi proibitiva. La soluzione, però, esisterebbe. Semplice
semplice. Dirottare il match in altra data. Posticiparlo: come
Juventus-Atalanta. O come Napoli-Cagliari. Oppure, anticiparlo. Troppo
semplice: dunque, improponibile. La
Lega si oppone: il calendario è confezionato, ormai. Oppure:
è opportuno salvaguardare la regolarità del torneo. Perché il Torino, tanto
tempo dopo, torna a mirare ad un piazzamento Uefa. Che è il medesimo obiettivo
dell’Inter, del Parma e del Milan. Ma anche della Lazio e del Verona: che
infatti, incrociano i tacchetti con ventiquattr’ore di ritardo. Di lunedì,
appunto. Ma anche perché il Chievo deve ancora conquistarsi la salvezza.
Esattamente come il Sassuolo, che però torna in campo martedì. Il Torino, a
questo punto, si sentirà pure ingiustamente defraudato di un diritto: possiamo facilmente
immaginarlo. Ma chi non possiede, all’interno del Palazzo, un peso politico
specifico si sforzi di scovare una motivazione. Oppure ne prenda atto. In
silenzio, possibilmente. Tanto, è lo stesso. E chi possiede un attimo di tempo
per pensare, probabilmente, si sentirà sufficientemente raggirato. Problemi
suoi, comunque. La Lega
e il movimento calcistico del Paese più buffo d’Europa sono blindati dalle
proprie certezze, dalle proprie convinzioni. Peggio per il Toro, se ogni sette
anni il quattro maggio è domenica. E se ogni domenica si continua a giocare,
magari in quattro o cinque campi: con le curve chiuse, dentro stadi fatiscenti,
sul filo di polemiche roventi e risse da osteria, in mezzo ai venti del
razzismo becero, nel vortice cieco della sudditanza psicologica della classe
arbitrale, producendo un prodotto tecnicamente scadente. Va tutto bene così com’è:
e il Palazzo è felice. Si adeguino tutti, piuttosto. E poi, se in Brasile l’Italia
dovesse resistere ai pronostici che assistono la concorrenza e regalarsi un
altro titolo mondiale, chissà come e chissà perché, qualcuno tornerà anche a raccontarci
quell’antica barzelletta: è tutto merito del campionato più bello e più
organizzato dell’universo. Allora, però, la gente non sospetterà neppure di
essere stata raggirata, una o più volte. E, sicuramente, alla barzelletta
crederà pure. Spacciandola per storia vera.
lunedì 17 febbraio 2014
Conte, la verità come difesa
La Juve
contro la Juve. Il
presente contro il passato. L’allenatore della rinascita contro i ricordi più
dolorosi e la storia più scomoda. Il peso specifico di Antonio Conte contro il
pensiero appuntito di Fabio Capello. Forse non si amavano, i due. Certamente, ora
si stanno detestando. Mentre la società, confusa, assiste. E la tifoseria,
disorientata, s’interroga. Dalla Russia, il vecchio coach puntualizza,
suggerisce, sentenzia. Quel lunedì punitivo somministrato da Conte alla
squadra, immediatamente dopo il pareggio di Verona, non gli è piaciuto. Lui,
Capello, non avrebbe agito così: è per il dialogo, sempre. Non per la pena
incondizionata.. E poi quel campionato italiano, così poco competitivo, è tremendamente fuorviante, quando si parla di Europa. Ma il nuovo caudillo
della Göba non apprezza. Sino a sbottare. Come avviene spesso, quando è
necessario difendere il gruppo. Il proprio lavoro. O la propria immagine. La
risposta è veemente: come se Capello guidasse l’Inter di Milano, piuttosto che
la selezione nazionale del Paese di Putin. Veemente come ai tempi di quella
battaglia legale e verbale ingaggiata con la giustizia sportiva, mesi fa. Conte
contro Capello: è una questione di confronti, all’ombra dei successi. Eppure,
il primo fa sapere di non ricordare né il predecessore, professorino senza il
culto del rispetto, così diverso da Lippi e Trapattoni, né la sua Juve. Scavando,
anzi, Conte qualcosa ricorda: la
Juve dei due scudetti cancellati a tavolino. Quelli sì, ancora
indelebili. Proprio quegli scudetti che il popolo juventino si tiene, invece,
stretti. E che la società stucchevolmente continua a rivendicare. All’improvviso,
cioè, il disconoscimento più rumoroso di un certo passato parte dalla stesse
viscere del club. Non piove dall’altra parte della barricata, ma nasce al di dentro
di quell’ecosistema che, sin qui, ha protetto il concetto di legittima
paternità di un risultato ritenuto fraudolento. Un avvenimento epocale, dunque.
Che rischia di alterare persino determinati equilibri, all’interno del club. E
che, secondo i più maligni, starebbe per spianare la strada ad un più o meno
imminente divorzio. Chissà. Involontariamente oppure no, intanto, il tecnico
salentino ricorda alla gente di ogni fede e colore e alla sua stessa società
quello che gli almanacchi e la realtà delle cose stanno cercando di farci
capire da un po’ di anni: il numero civico delle vittorie ufficialmente
intascate è il ventinove e non il trentuno. Forse, una verità troppo grande da
nascondere e un equivoco troppo evidente da sopportare. Anche per un
personaggio sanguigno e aggressivo come Conte. Anche per un guerriero
inossidabile e ferocemente mourinhizzato
come l’allenatore più chiacchierato d’Italia. E, adesso, persino meno
antipatico di quanto avremmo pensato immaginare.
mercoledì 29 gennaio 2014
Nocerina, sentenza prevista. E scontata
Certe notizie si attendono.
Perché è da un po’ che se ne parlava. E, si sa, determinati verdetti non sfuggono
dal segreto di un’istruttoria o di un procedimento legale solo per caso.
Perché, tante volte, sembra davvero tutto già scritto: molto prima che la
giustizia si pronunci. Certe sentenze sono previste. Perché il fatto (la
sospensione forzata di Salernitana-Nocerina) era e resta grave, chiassoso, mediaticamente
voluminoso. E perché il rischio di incentivare il rampantismo delle frange più
radicali del tifo organizzato esiste e intimorisce. Certe sentenze sono
gradite. Perché placano la sete di giustizia della collettività. Perché
tranquillizzano l’uomo della strada e lo sportivo comune. Lasciandogli credere
che tutto è sotto controllo, che il sistema funziona, sempre e comunque, che
tutto va come deve andare. L’esclusione della Nocerina dal campionato di
competenza, quello di terza serie, a lavori ancora in corso, era oggettivamente
scontata. E scontate erano pure le sanzioni ufficialmente inflitte in mattinata
dalla Commissione Disciplinare a dirigenti, tecnico e giocatori (alcuni) del club. Quello stesso club che,
peraltro, se l’è anche chiamata: fluttuando tra reticenze, piccole e grandi
bugie, ripensamenti e cattiva gestione della situazione. Prima, durante e dopo il
derby della vergogna. Finendo per pagare a caro prezzo. Perché l’Italia
del pallone è un po’ stanca. Di tutto. Perché un esempio serve ad educare.
Perché qualcosa avrebbe dovuto pur accadere. Perché, in fondo, questa è soltanto serie
C. Perché quello di Lega Pro è, di fatto, un angolo già mortificato
dall’imminente risistemazione dei campionati. E perché, magari, Nocera
Inferiore è periferia della Repubblica, lontana dai circuiti del potere, dal
cuore della finanza e dalla fede delle maggioranze. Una Nocerina in meno non
abbaglia, non stride e, soprattutto, non guasta mai. Semmai, addolcisce l’amaro. Del resto,
chissà, altrove una situazione del genre non sarebbe neppure accaduta. Perché il tessuto sociale, anche nel
calcio, può incidere. E perché, in categorie più elevate, la soglia di
attenzione dwgli addetti ai lavori è più marcata e anche gli indirizzi di autocomportamento sono mediamente più saldi. Fosse
capitato tutto più in alto, però, il problema sarebbe diventato più scottante,
più scomodo, più pesante. E il verdetto, probabilmente, meno previsto, meno
atteso.
martedì 21 gennaio 2014
Thohir, lezione numero uno
Rafforzarsi o ripianare. Guardare avanti, oppure tutelarsi. Evolversi o galleggiare. Spegnere la sete d’ambizione, oppure scontrarsi con la storia. L’Internazionale di Milano naviga tra il recente passato, troppo ingombrante, e il prossimo futuro, che già assomiglia a certi angoli bui frequentati per decenni, prima di tornare a vincere tutto. Moratti non c’è più. Non in prima linea, almeno. Ma c’è Thohir, indonesiano senza lo scrupolo della passione, presidente un po’ distante – anche geograficamente – che sgorga da una cultura diversa e da differenti esperienze di vita e d’affari. Vendere, prima di acquistare: è questa la strategia. Mai accaduto, a certi livelli. Dove, chi arriva, deve ritagliarsi il consenso. Vendere. O, al massimo, scambiare. Provando a guadagnarci qualcosa, magari. Il mercato di gennaio, intanto, è pronto a soccorrere il progetto. Emerge, così, l’idea: caricarsi l’ingaggio di Vučinić, che la Juve di Conte non apprezza più come un tempo, liberandosi contemporaneamente di Guarín: uno che, però, all’Inter di Mazzarri continuerebbe a servire. Soprattutto di questi tempi: in cui i risultati sgorgano faticosamente. Solo che, sotto la lente di una prima e sommaria analisi popolare, lo scambio appare tecnicamente sconveniente. Al di là del conguaglio da stabilire. La gente e l’opinione pubblica, cioè, non perdono troppo tempo a valutare la situazione e, immediatamente, bocciano il disegno. Che, in realtà, è assai più che un disegno: Vučinić ha già sostenuto le visite mediche a Milano. E altrettanto, a Torino, ha fatto Guarín. Come dire: è tutto già deciso, stabilito. Ma l’anima interista sobbolle, istigata da certi precedenti: le manovre congiunte con la Juventus, troppe volte, si sono rivelate deludenti, anacronistiche. Una fregatura, ecco. Ci sono ancora sacche di buona memoria, in questo Paese. E la tifoseria riconosce facilmente l’ingenua società di un tempo. La sollevazione mediatica, tuttavia, funziona. E, si dice, Moratti ci mette qualcosa di suo: una telefonata. Thohir, allora, decodifica il disagio e intuisce il pericolo di scollamento dell’ambiente. Planando sulla questione con pessima tempistica, ma con definitiva autorità. Stop, trattativa saltata. Rimane tutto com’è. Branca, se resterà, si regoli diversamente. L’opera di risanamento, chissà, proseguirà ugualmente. O anche no. Però senza il sapore acre dell'adiratissima Juve nel palato. Rafforzarsi o galleggiare: il problema, per il momento, si agita ancora. Ma le prime indicazioni gestionali arrivano dalla base, piaccia o no. Thohir, probabilmente, non se lo sarebbe mai aspettato: ma il calcio delle passioni e del campanile è anche questo. Lezione numero uno.
lunedì 13 gennaio 2014
La poltrona di cartone del vicereame
Galliani, Barbara Berlusconi: due poltrone per un solo
vicereame, quello del Milan. E due
personalità unite da un fragile ed inconfessabile segreto: per l’effetto del
quale l’anziano plenipotenziario, quanto prima, toglierà il disturbo. Al di là
delle dichiarazioni di comodo. Perché in certi ambienti è così: tutto va bene,
sino a nuovo ordine. E, dietro, l’ombra incombente del padrone Silvio. Che ha
già deciso di rinnovare: proprio tutto. E, contemporaneamente, di salvaguardare
l’armonia di famiglia: e ci mancherebbe, del resto. Quel padrone che, da tempo,
non ama Allegri. E che, nel tempo, più volte ha provato a defenestrare. Senza
riuscirci. Incocciando proprio nella dura corteccia di Galliani. Questa volta,
però, è davvero finita. E non solo per il tecnico, travolto da un ragazzo che
si chiama Domenico Berardi e che arriva da Cariati. Travolto dal Sassuolo. E travolto, innanzi tutto, dal suo stesso
destino, già tracciato e persino pubblicizzato con anticipo larghissimo: sei
mesi. E’ davvero finita, nel frattempo, anche per il Richelieu più longevo
d’Italia. Al quale era stata recentemente affidata la titolarità dell’area
tecnica. Costata anche abbastanza: cioè, la cessione dell’area amministrativa e
organizzativa. Barbara, però, scalpitava e scalpita ancora. Consapevole di
possedere spalle larghe e, soprattutto, coperte. Sufficienti, alla prima
occasione utile, per intervenire duramente. La figura magra di Sassuolo è
inaccettabile, detta. E, immediatamente dopo, cala il sipario. Due poltrone
sono troppe, in un vicereame. Solo una regge. L’altra è puro cartone. E le
bugie, nel calcio prima che altrove, affiorano presto.
sabato 4 gennaio 2014
Il tradimento e la scelta
Vladimir Petković è un signore di garbo infinito e di
atteggiamenti glaciali. Arrivato alla Lazio, all’inizio della scorsa stagione,
piacque sùbito. Alla gente che ama il pallone, alla tifoseria che affolla la
curva nord dell’Olimpico e, infine, a Claudio Lotito, il suo datore di lavoro.
Bella presenza, buone maniere, un buon sistema di gioco e, proprio in coda al
campionato, una gran bella soddisfazione: la Coppa Italia. Non un
trofeo qualsiasi, per chi vince saltuariamente: soprattutto, se la finale è
anche un derby. Il derby di Roma. Ma le situazioni si evolvono. E alcune si
involvono. La Lazio
perde qualcosa. Non si rafforza. Lo spogliatoio si inquieta. Probabilmente,
Petković perde pure un po’ di peso specifico. I risultati corrono dietro agli
avversari, troppo spesso. La squadra, cioè, non sa ripetersi.
Contemporaneamente, il tecnico bosniaco comincia a piacere alla Federazione
svizzera, che cerca un nuovo driver,
da giugno in poi. Il flirt sfocia nell’accordo, assolutamente
legittimo: proprio a giugno scade il contratto con la Lazio, è tutto in regola.
L’allenatore stenta a pubblicizzare la novità. Infine, la Federazione Svizzera
rompe il silenzio e diffonde un comunicato ufficiale. Petković, a fine stagione,
saluta l’Italia e passa il confine. Lotito, in realtà, la prende male. Molto
male. Anche se, di fatto, cerca da tempo di liberarsi del tecnico e di affidare
la Lazio a
qualcun altro. Magari, risparmiando su un ingaggio. Niente, Petković non si
dimette. Non si muove. Sino a giugno. A meno che non arrivi l’esonero. Ed è
proprio questo l’ultimo atto: il presidente si inventa anche il licenziamento
per giusta causa. Per tradimento. E se si trattasse, invece, di semplice
legittimazione della titolarità di una scelta? Lasciare un incarico per
assumerne un altro, altrove: talvolta, succede. Anche se i padroni della nostra
quotidianità, da un po’, si sono abituati troppo bene.
Iscriviti a:
Post (Atom)