Vladimir Petković è un signore di garbo infinito e di
atteggiamenti glaciali. Arrivato alla Lazio, all’inizio della scorsa stagione,
piacque sùbito. Alla gente che ama il pallone, alla tifoseria che affolla la
curva nord dell’Olimpico e, infine, a Claudio Lotito, il suo datore di lavoro.
Bella presenza, buone maniere, un buon sistema di gioco e, proprio in coda al
campionato, una gran bella soddisfazione: la Coppa Italia. Non un
trofeo qualsiasi, per chi vince saltuariamente: soprattutto, se la finale è
anche un derby. Il derby di Roma. Ma le situazioni si evolvono. E alcune si
involvono. La Lazio
perde qualcosa. Non si rafforza. Lo spogliatoio si inquieta. Probabilmente,
Petković perde pure un po’ di peso specifico. I risultati corrono dietro agli
avversari, troppo spesso. La squadra, cioè, non sa ripetersi.
Contemporaneamente, il tecnico bosniaco comincia a piacere alla Federazione
svizzera, che cerca un nuovo driver,
da giugno in poi. Il flirt sfocia nell’accordo, assolutamente
legittimo: proprio a giugno scade il contratto con la Lazio, è tutto in regola.
L’allenatore stenta a pubblicizzare la novità. Infine, la Federazione Svizzera
rompe il silenzio e diffonde un comunicato ufficiale. Petković, a fine stagione,
saluta l’Italia e passa il confine. Lotito, in realtà, la prende male. Molto
male. Anche se, di fatto, cerca da tempo di liberarsi del tecnico e di affidare
la Lazio a
qualcun altro. Magari, risparmiando su un ingaggio. Niente, Petković non si
dimette. Non si muove. Sino a giugno. A meno che non arrivi l’esonero. Ed è
proprio questo l’ultimo atto: il presidente si inventa anche il licenziamento
per giusta causa. Per tradimento. E se si trattasse, invece, di semplice
legittimazione della titolarità di una scelta? Lasciare un incarico per
assumerne un altro, altrove: talvolta, succede. Anche se i padroni della nostra
quotidianità, da un po’, si sono abituati troppo bene.