Dicevamo: le parole sono
pesanti. E vanno usate con intelligenza. E serietà. Altrimenti, meglio lasciarle
ad altri. Parlare (e pensare) male non è come scrivere colpevolmente, ma il
problema rimane ugualmente. Anche se le sillabe, più o meno infelici, scivolano
– quasi inosservate – in uno stadio. O all’interno di una tribuna stampa. Dove
sarebbe normale attendersi una migliore qualità intellettuale, se non altro.
Non solo di questi tempi, in cui continuiamo a discutere troppo spesso di
razzismo e di territorialità: ma sempre. Il dottor Baldassarre è un medico
assai conosciuto nella sua città, Foggia. Si è occupato di antidoping, per
anni. E, da anni, coltiva un’occupazione parallela: scrive. E, in alcuni
salotti televisivi, commenta. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco pubblicisti.
E, ovviamente, del Foggia è sostenitore appassionato. Possiede, come tanti,
precise idee politiche: diciamo pure di tenore decisamente nostalgico. Che non
ha mai nascosto, peraltro. Baldassarre, però, durante il minuto di silenzio
osservato in tutti i campi italiani, in memoria dei migranti annegati nelle
acque tra Lampedusa e l’Africa, non più di due domeniche addietro, ha
oggettivamente sprecato un’insostituibile occasione per tacere. Una frase di
cattivo gusto, ecco. Un po’ grossolana, becera. Ed anche retorica.
Diseducativa, se vogliamo. Prontamente riportata da chi c’era, duramente
censurata dall’Ordine stesso e, infine, sanzionata con un daspo. Cinque anni, in tutto: esattamente il tempo in cui
Baldassarre dovrà disertare gli stadi e frequentare la questura per la firma di
prassi. Condanna esemplare, come hanno detto e scritto. Eppure, per quel che ci
riguarda, anche esagerata. D’accordo, le parole pesano. E uccidono quasi quanto
le armi. Ma cinque anni sono una pena smisurata: soprattutto se comparata al
castigo inflitto – quando avviene – a chi, dentro e fuori del campo, nell’anonimato
di una curva o di una strada, commette qualcosa di molto peggio. A chi,
tuttavia, possiede un volto conosciuto o riconoscibile e, molto spesso, lascia
una firma indelebile, impunemente. Pretenderemmo, a questo punto, retate
settimanali: in ogni angolo d’Italia. E pene automatiche. Ma sappiamo che non
avverrà: Questo è il Paese di sempre: forte con i deboli e debole con i forti.
giovedì 17 ottobre 2013
martedì 15 ottobre 2013
La democrazia e il peso delle parole
Mario Balotelli è quello di
sempre: teso, ruvido, nervoso. Un ragazzo un po’ così: a cui la vita qualcosa ha tolto, in passato. Restituendogli, più avanti, parecchio. Dal carattere
forte, ma in formazione. Talvolta inopportuno: nelle parole, nei comportamenti.
Da sembrare addirittura arrogante. Refrattario a certe consuetudini e certe
regole: scritte e non scritte. Un attaccante rampante ed esplosivo (sotto
qualsiasi angolazione) di ventitre anni che, sempre più spesso, si attira ogni
genere di complicazione: per leggerezza, superficialità, ingenuità o
sciatteria. Dimostrando esattamente quello che è: un professionista del pallone
universalmente considerato, ma anche disattento a certe dinamiche. E, comunque,
totalmente inserito nella sua quotidianità: in cui è preferibile apparire, prima
di tutto. Ma pure ingiustamente collocato al centro di qualsiasi questione:
anche in quelle più grandi di lui. E, per questo, difficilmente gestibile. Di
Balotelli, in realtà, si parla troppo, da sempre: questa è la verità. Persino
quando lui stesso ne farebbe a meno. Ancora prima che ci metta del proprio.
Come nelle ultime quarantotto ore. Il suo tweet,
in prossimità dell’incontro tra la
Nazionale di Prandelli e l’universo della legalità promosso
dai dilettanti del Quarto, non è passato inosservato: devitalizzando, seppur in
parte, lo spessore dell’iniziativa a cui la Federazione e lo
stesso coach sembravano e sembrano tenere parecchio (il codice etico, di questi
tempi, è cosa seria assai, per fortuna). E proprio Prandelli, più di altri, non
ha affatto gradito. Trovando immediatamente una contromisura che, di certo, non
possiede tutti i criteri di una soluzione democratica e che, perciò, fa già (e
farà ancora) discutere: ai prossimi Mondiali brasiliani, per i quali l’Italia è
già qualificata, verrà vietato a chiunque l’utilizzo dei social network, cioè uno dei simboli indiscussi di una generazione
proiettata nel mondo della comunicazione. Quella stessa comunicazione che molti
protagonisti, soprattutto tra i più giovani, faticano a decodificare e
utilizzare. Sarà poco democratico, Prandelli. Ma il concetto, in fondo, è
giusto: le parole sono pesanti. E, talvolta, non meritano di essere pubblicate.
lunedì 7 ottobre 2013
Evacuo e l'intolleranza da derby
Frizioni,
rivalità e male parole. Cose da derby. Da partite speciali. Nella metropoli,
come in provincia. Eppure, ci sono partite più speciali di altre. In cui si
alza lo steccato dell’intolleranza. Benevento e Nocerina viaggiano divise da
profonde inimicizie: sugli spalti, ovviamente. E Felice Evacuo è l’artigliere
principale dei sanniti: uno che, in categoria (la terza serie) può scavare la
differenza. Uno che, anche, possiede mercato: e che, in più occasioni, si è
ritrovato a cambiare casacca. Pure nel corso dell’ultima estate: ritornando da
un’avventura di sette mesi consumata proprio a Nocera. Bene: Evacuo segna (ma
il direttore di gara annulla) e non esulta: ormai è consuetudine. Che
fatichiamo a condividere. E, sin qui, tutto bene: anche se, in curva, qualcuno
potrebbe persino non aver gradito, chissà. Il Benevento, però, si impone
ugualmente, alla fine. Ma, proprio alla fine del derby, accade quello che non
dovrebbe accadere: l’attaccante, con tutta la squadra, saluta il proprio
pubblico e, prima di rientrare negli spogliatoi, si permette di omaggiare con
un applauso anche la sua ex tifoseria che lo chiama. Tutto normale. Anzi, no.
La reazione della torcida beneventana è veemente ed esagerata. E si riassume
nell’inopportuno comunicato diffuso immediatamente dopo: «Il signor Felice Evacuo entro stasera deve effettuare
la rescissione del contratto e contestualmente è pregato di lasciare la città.
L'eventualità che Evacuo possa presentarsi alla prossima seduta di allenamento
sarà considerato un affronto alla Curva Sud». Tutto vero, avete letto bene. Cose che accadono,
quando il tifo organizzato si arroga il diritto di determinare i destini di
chiunque e, in fondo, del calcio stesso. Più calibrata, piuttosto, è la
risposta di Oreste Vigorito, presidente del club: «Certi gesti andrebbero presi per quello
che sono: sportività». Sì, sportività. Quella condizione strana che l’italiano
medio, tante volte, ignora e rifugge. Che le curve, ancora troppo spesso,
denigrano e combattono. Che il calcio, giorno dopo giorno, disconosce e
annulla. Lasciandoci un senso di tristezza infinita. E facendoci capire quanto
il pallone assomigli, sempre di più, alla nostra quotidianità. Dove la normalità
è un universo distante, desueto, impraticabile. E l’anormalità è regola.
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