giovedì 17 ottobre 2013

L'Italia dei deboli e l'impunità dei forti

Dicevamo: le parole sono pesanti. E vanno usate con intelligenza. E serietà. Altrimenti, meglio lasciarle ad altri. Parlare (e pensare) male non è come scrivere colpevolmente, ma il problema rimane ugualmente. Anche se le sillabe, più o meno infelici, scivolano – quasi inosservate – in uno stadio. O all’interno di una tribuna stampa. Dove sarebbe normale attendersi una migliore qualità intellettuale, se non altro. Non solo di questi tempi, in cui continuiamo a discutere troppo spesso di razzismo e di territorialità: ma sempre. Il dottor Baldassarre è un medico assai conosciuto nella sua città, Foggia. Si è occupato di antidoping, per anni. E, da anni, coltiva un’occupazione parallela: scrive. E, in alcuni salotti televisivi, commenta. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco pubblicisti. E, ovviamente, del Foggia è sostenitore appassionato. Possiede, come tanti, precise idee politiche: diciamo pure di tenore decisamente nostalgico. Che non ha mai nascosto, peraltro. Baldassarre, però, durante il minuto di silenzio osservato in tutti i campi italiani, in memoria dei migranti annegati nelle acque tra Lampedusa e l’Africa, non più di due domeniche addietro, ha oggettivamente sprecato un’insostituibile occasione per tacere. Una frase di cattivo gusto, ecco. Un po’ grossolana, becera. Ed anche retorica. Diseducativa, se vogliamo. Prontamente riportata da chi c’era, duramente censurata dall’Ordine stesso e, infine, sanzionata con un daspo. Cinque anni, in tutto: esattamente il tempo in cui Baldassarre dovrà disertare gli stadi e frequentare la questura per la firma di prassi. Condanna esemplare, come hanno detto e scritto. Eppure, per quel che ci riguarda, anche esagerata. D’accordo, le parole pesano. E uccidono quasi quanto le armi. Ma cinque anni sono una pena smisurata: soprattutto se comparata al castigo inflitto – quando avviene – a chi, dentro e fuori del campo, nell’anonimato di una curva o di una strada, commette qualcosa di molto peggio. A chi, tuttavia, possiede un volto conosciuto o riconoscibile e, molto spesso, lascia una firma indelebile, impunemente. Pretenderemmo, a questo punto, retate settimanali: in ogni angolo d’Italia. E pene automatiche. Ma sappiamo che non avverrà: Questo è il Paese di sempre: forte con i deboli e debole con i forti.


martedì 15 ottobre 2013

La democrazia e il peso delle parole

Mario Balotelli è quello di sempre: teso, ruvido, nervoso. Un ragazzo un po’ così: a cui la vita qualcosa ha tolto, in passato. Restituendogli, più avanti, parecchio. Dal carattere forte, ma in formazione. Talvolta inopportuno: nelle parole, nei comportamenti. Da sembrare addirittura arrogante. Refrattario a certe consuetudini e certe regole: scritte e non scritte. Un attaccante rampante ed esplosivo (sotto qualsiasi angolazione) di ventitre anni che, sempre più spesso, si attira ogni genere di complicazione: per leggerezza, superficialità, ingenuità o sciatteria. Dimostrando esattamente quello che è: un professionista del pallone universalmente considerato, ma anche disattento a certe dinamiche. E, comunque, totalmente inserito nella sua quotidianità: in cui è preferibile apparire, prima di tutto. Ma pure ingiustamente collocato al centro di qualsiasi questione: anche in quelle più grandi di lui. E, per questo, difficilmente gestibile. Di Balotelli, in realtà, si parla troppo, da sempre: questa è la verità. Persino quando lui stesso ne farebbe a meno. Ancora prima che ci metta del proprio. Come nelle ultime quarantotto ore. Il suo tweet, in prossimità dell’incontro tra la Nazionale di Prandelli e l’universo della legalità promosso dai dilettanti del Quarto, non è passato inosservato: devitalizzando, seppur in parte, lo spessore dell’iniziativa a cui la Federazione e lo stesso coach sembravano e sembrano tenere parecchio (il codice etico, di questi tempi, è cosa seria assai, per fortuna). E proprio Prandelli, più di altri, non ha affatto gradito. Trovando immediatamente una contromisura che, di certo, non possiede tutti i criteri di una soluzione democratica e che, perciò, fa già (e farà ancora) discutere: ai prossimi Mondiali brasiliani, per i quali l’Italia è già qualificata, verrà vietato a chiunque l’utilizzo dei social network, cioè uno dei simboli indiscussi di una generazione proiettata nel mondo della comunicazione. Quella stessa comunicazione che molti protagonisti, soprattutto tra i più giovani, faticano a decodificare e utilizzare. Sarà poco democratico, Prandelli. Ma il concetto, in fondo, è giusto: le parole sono pesanti. E, talvolta, non meritano di essere pubblicate.  




lunedì 7 ottobre 2013

Evacuo e l'intolleranza da derby



Frizioni, rivalità e male parole. Cose da derby. Da partite speciali. Nella metropoli, come in provincia. Eppure, ci sono partite più speciali di altre. In cui si alza lo steccato dell’intolleranza. Benevento e Nocerina viaggiano divise da profonde inimicizie: sugli spalti, ovviamente. E Felice Evacuo è l’artigliere principale dei sanniti: uno che, in categoria (la terza serie) può scavare la differenza. Uno che, anche, possiede mercato: e che, in più occasioni, si è ritrovato a cambiare casacca. Pure nel corso dell’ultima estate: ritornando da un’avventura di sette mesi consumata proprio a Nocera. Bene: Evacuo segna (ma il direttore di gara annulla) e non esulta: ormai è consuetudine. Che fatichiamo a condividere. E, sin qui, tutto bene: anche se, in curva, qualcuno potrebbe persino non aver gradito, chissà. Il Benevento, però, si impone ugualmente, alla fine. Ma, proprio alla fine del derby, accade quello che non dovrebbe accadere: l’attaccante, con tutta la squadra, saluta il proprio pubblico e, prima di rientrare negli spogliatoi, si permette di omaggiare con un applauso anche la sua ex tifoseria che lo chiama. Tutto normale. Anzi, no. La reazione della torcida beneventana è veemente ed esagerata. E si riassume nell’inopportuno comunicato diffuso immediatamente dopo:  «Il signor Felice Evacuo entro stasera deve effettuare la rescissione del contratto e contestualmente è pregato di lasciare la città. L'eventualità che Evacuo possa presentarsi alla prossima seduta di allenamento sarà considerato un affronto alla Curva Sud». Tutto vero, avete letto bene. Cose che accadono, quando il tifo organizzato si arroga il diritto di determinare i destini di chiunque e, in fondo, del calcio stesso. Più calibrata, piuttosto, è la risposta di Oreste Vigorito, presidente del club: «Certi gesti andrebbero presi per quello che sono: sportività». Sì, sportività. Quella condizione strana che l’italiano medio, tante volte, ignora e rifugge. Che le curve, ancora troppo spesso, denigrano e combattono. Che il calcio, giorno dopo giorno, disconosce e annulla. Lasciandoci un senso di tristezza infinita. E facendoci capire quanto il pallone assomigli, sempre di più, alla nostra quotidianità. Dove la normalità è un universo distante, desueto, impraticabile. E l’anormalità è regola.