Eccoli, i Mondiali. Impazientemente attesi, come sempre. E,
una volta di più, deludenti. Per i contenuti e anche per quello che
circumnaviga la kermesse tutta. Kermesse partita c on fatica: tra
polemiche, contestazioni popolari, problematiche strutturali e lutti. E
lievitata male, anche tecnicamente: Spagna subito fuori, Italia ed Inghilterra
pure, Portogallo e Russia a rimorchio, Brasile zoppicante, Argentina così e
così. Dove le indecisioni arbitrali (poche, fortunatamente) fanno discutere – e
non solo a queste latitudini – e determinati comportamenti, sul campo, lasciano
pensare. Un nome per tutti, Suárez,
artigliere dell’Uruguay che sa mordere. In tutti i sensi: dietro un pallone e
sulle spalle dell’avversario. Nel caso specifico, Chiellini: uno dei simboli
dell’Italia debole e molle che perde il confronto diretto e che se ne torna
immediatamente a casa. Suárez
è sangue bollente e istinto feroce, si sa. Ed è, soprattutto, recidivo: il
campionato inglese, dove si esibisce settimanalmente, ci offre altri episodi
del medesimo spessore. Peccato, però, che il suo selezionatore Tabárez, universalmente ricordato come
persona garbata e per bene, argomenti di falso moralismo o di moralismo a buon
mercato, oltrepassando il limite del diritto alla tutela del proprio
attaccante. E quello del buon senso. Anche perché la morale c’entra poco:
lasciando stagnare un gesto volgare, ma soprattutto violento. Che il
regolamento, almeno nel pallone, sanziona. Punto. E poi c’è Mario Balotelli.
Arrivato in Sudamerica più sereno del solito, in gol contro l’Inghilterra e,
infine, affondato dalle critiche esterne e dal risentimento dello stesso
spogliatoio azzurro. Figurina o no, il ragazzo ha sostanzialmente fallito la
prova, l’ennesima. Dentro e fuori dal campo: se e è vero, come rivela un organo
di stampa, che avrebbe digerito assai male un rimprovero di Prandelli durante
l’intervallo del match con l’Uruguay. Si parla persino di oggetti volanti, in
quei momenti: situazione, questa, che gli sarebbe costata la sostituzione e,
dopo il novantesimo, gli acidi attacchi di Buffon e De Rossi. Ma, del resto, le
esperienze di questi anni ci spingono a pensare che il commissario tecnico
abbia voluto provare a vincere una sfida, evidentemente persa: quella di
trasportare Balotelli da uno status
di eterna e acerba promessa a quello di pedina decisiva e internazionalmente
proponibile. Sacrificando, magari, il minor tasso tecnico e atletico e la
superiore affidabilità di altri. Rimasti a guardare: davanti ad un televisore o
in panchina. Eppure, non ci sta neppure bene che il fallimento della Nazionale
in Brasile possa essere unicamente ascritto a Balotelli. I punti sono altri: è
mancata la mentalità della squadra che sa quello che vuole, ha difettato
l’autorità nelle situazioni di gioco più determinanti. La formazione dell'ormai dimissionario
Prandelli, contro Costa Rica e Uruguay, non ha saputo imporsi, mai. Attendendo
l’avversario, sempre e comunque. Piegandosi, anche, all’ineguagliabile stress
del campionato italiano, che toglie puntualmente qualcosa alla freschezza
atletica e alla brillantezza del gruppo. Ma, soprattutto, è riemersa quella
verità che conoscevamo da tempo e che, in tanti, si sono affrettati a
disconoscere o a dimenticare per convenienza: il livello del calcio, sotto le
Alpi, oggi è questo. Piaccia o no pure a chi, in Italia, adesso sta vincendo. E
anche abbastanza agevolmente.
La Quinta del Buitre
Il pallone tra le righe
mercoledì 25 giugno 2014
lunedì 12 maggio 2014
Etici sì, autolesionisti no
Questa storiella tutta
italiana del codice etico applicato al pallone (meglio ancora, alla Nazionale
gestita da Prandelli) comincia onestamente a sanare. Giusto per esprimersi in
lingua corrente e diretta. Primo, perché – in campo – contano innanzi tutto la
tecnica, la tattica, l’ardore e qualche altra qualità. Mentre il perbenismo si
persegue anche con punizioni esemplari, magari: da applicarsi nel campionato,
se il reato è consumato all’interno della competizione. E in campo
internazionale, se la mala azione è consumata con la casacca azzurra. Senza
dover necessariamente ricorrere a operazioni un po’ bacchettone, tanto per
intenderci. Secondo, perché - in prossimità dei Mondiale – la questione rischia
di finire seppellita da tonnellate di polemiche: molte delle quali
assolutamente gratuite, dunque inutili. Soprattutto se altri cattivi pensieri
si accodano a quelli di sempre. E, terzo, perché l’argomento presuppone
seriamente un pericolo male calcolato: quello di tramutarsi in un feroce
autogol. Pericolo dai cui effetti, peraltro, il coach sta cominciando a
contrapporre le prime contromisure: ignorando semplicemente il problema, quando
è il caso di ignorarlo. Ma, al di là di tutto, le fondamenta del concetto così
caro ai vertici federali e allo stesso commissario tecnico scricchiolano non
poco, ormai. Chi sbagliava, pagava: da De Rossi a Balotelli, da Osvaldo a Criscito. Così è stato, sin qui. L’ultimo sanzionato,
in ordine di tempo, si chiama Destro: quattro giornate di squalifica rimediate
nel corso di questa stagione e, di conseguenza, il blocco delle convocazioni
con la selezione principale. Colpevole sino in fondo oppure no, non importava:
bastava la prima sanzione, per innescare la seconda. La penultima giornata di
campionato, invece, dispensa un altro caso spinoso: nel match di Roma, dove la Juve arriva già scudettata,
Chiellini si libera fallosamente di Pjanić. Il direttore di gara non vede e non
interviene: ma le telecamere spiano, come sempre. Materiale buono per applicare
la prova tv: tre giornate a Chiellini. Quanto basta per bloccarlo pure in
ottica Nazionale: come accaduto per Destro e per altri, prima di lui. Ma il
Mondiale si avvicina. E si avvicina davvero. E il difensore toscano non si
sostituisce facilmente. Condizione sufficiente per scartare l’ipotesi del gesto
violento: Prandelli, cioè, l’assolve. Con coraggio e pragmatismo. Annunciando
di volerlo inserire ugualmente nella lista dei trenta preconvocati per il
Brasile. E smentendo, così, se stesso e la linea etica perseguita da quattro
anni. Pensiero di una sera di maggio: Destro, e chi come lui, non sono pedine
imprescindibili. Chiellini sì. Etici sempre, ma non autolesionisti. E
tatticamente accorti. E’ l’Italia che va. E’ l’Italia che deve andare.
lunedì 28 aprile 2014
Il Torino e la domenca di troppo
Il quattro maggio è il giorno della memoria, nella Torino granata. E
anche in tutta l’Italia del pallone. E ogni quattro maggio, da sessantacinque
anni, si sale sul colle di Superga, per raccogliersi e per ricordare. E’ un
rito, una tradizione. Un’esigenza. Questa volta, il quattro maggio coincide con
la domenica del pallone. Che segue il sabato del pallone e procede il lunedì
del pallone: il sistema, si sa, progetta il business
e pretende che sia festa tutti i giorni (ma poi, in fondo, che sarà mai: e poi
ci siamo un po’ tutti abituati, forse perché ci va benone anche così). Ad ogni
modo, domenica quattro maggio si gioca. O meglio: gioca anche il Torino, a
Verona, sponda Chievo. Come da calendario: quello che, puntualmente, viene
stravolto da anticipi e posticipi più o meno telegenici. Ma, se il Torino
gioca, la partecipazione al giorno della memoria diventa un’operazione
logisticamente quasi proibitiva. La soluzione, però, esisterebbe. Semplice
semplice. Dirottare il match in altra data. Posticiparlo: come
Juventus-Atalanta. O come Napoli-Cagliari. Oppure, anticiparlo. Troppo
semplice: dunque, improponibile. La
Lega si oppone: il calendario è confezionato, ormai. Oppure:
è opportuno salvaguardare la regolarità del torneo. Perché il Torino, tanto
tempo dopo, torna a mirare ad un piazzamento Uefa. Che è il medesimo obiettivo
dell’Inter, del Parma e del Milan. Ma anche della Lazio e del Verona: che
infatti, incrociano i tacchetti con ventiquattr’ore di ritardo. Di lunedì,
appunto. Ma anche perché il Chievo deve ancora conquistarsi la salvezza.
Esattamente come il Sassuolo, che però torna in campo martedì. Il Torino, a
questo punto, si sentirà pure ingiustamente defraudato di un diritto: possiamo facilmente
immaginarlo. Ma chi non possiede, all’interno del Palazzo, un peso politico
specifico si sforzi di scovare una motivazione. Oppure ne prenda atto. In
silenzio, possibilmente. Tanto, è lo stesso. E chi possiede un attimo di tempo
per pensare, probabilmente, si sentirà sufficientemente raggirato. Problemi
suoi, comunque. La Lega
e il movimento calcistico del Paese più buffo d’Europa sono blindati dalle
proprie certezze, dalle proprie convinzioni. Peggio per il Toro, se ogni sette
anni il quattro maggio è domenica. E se ogni domenica si continua a giocare,
magari in quattro o cinque campi: con le curve chiuse, dentro stadi fatiscenti,
sul filo di polemiche roventi e risse da osteria, in mezzo ai venti del
razzismo becero, nel vortice cieco della sudditanza psicologica della classe
arbitrale, producendo un prodotto tecnicamente scadente. Va tutto bene così com’è:
e il Palazzo è felice. Si adeguino tutti, piuttosto. E poi, se in Brasile l’Italia
dovesse resistere ai pronostici che assistono la concorrenza e regalarsi un
altro titolo mondiale, chissà come e chissà perché, qualcuno tornerà anche a raccontarci
quell’antica barzelletta: è tutto merito del campionato più bello e più
organizzato dell’universo. Allora, però, la gente non sospetterà neppure di
essere stata raggirata, una o più volte. E, sicuramente, alla barzelletta
crederà pure. Spacciandola per storia vera.
lunedì 17 febbraio 2014
Conte, la verità come difesa
La Juve
contro la Juve. Il
presente contro il passato. L’allenatore della rinascita contro i ricordi più
dolorosi e la storia più scomoda. Il peso specifico di Antonio Conte contro il
pensiero appuntito di Fabio Capello. Forse non si amavano, i due. Certamente, ora
si stanno detestando. Mentre la società, confusa, assiste. E la tifoseria,
disorientata, s’interroga. Dalla Russia, il vecchio coach puntualizza,
suggerisce, sentenzia. Quel lunedì punitivo somministrato da Conte alla
squadra, immediatamente dopo il pareggio di Verona, non gli è piaciuto. Lui,
Capello, non avrebbe agito così: è per il dialogo, sempre. Non per la pena
incondizionata.. E poi quel campionato italiano, così poco competitivo, è tremendamente fuorviante, quando si parla di Europa. Ma il nuovo caudillo
della Göba non apprezza. Sino a sbottare. Come avviene spesso, quando è
necessario difendere il gruppo. Il proprio lavoro. O la propria immagine. La
risposta è veemente: come se Capello guidasse l’Inter di Milano, piuttosto che
la selezione nazionale del Paese di Putin. Veemente come ai tempi di quella
battaglia legale e verbale ingaggiata con la giustizia sportiva, mesi fa. Conte
contro Capello: è una questione di confronti, all’ombra dei successi. Eppure,
il primo fa sapere di non ricordare né il predecessore, professorino senza il
culto del rispetto, così diverso da Lippi e Trapattoni, né la sua Juve. Scavando,
anzi, Conte qualcosa ricorda: la
Juve dei due scudetti cancellati a tavolino. Quelli sì, ancora
indelebili. Proprio quegli scudetti che il popolo juventino si tiene, invece,
stretti. E che la società stucchevolmente continua a rivendicare. All’improvviso,
cioè, il disconoscimento più rumoroso di un certo passato parte dalla stesse
viscere del club. Non piove dall’altra parte della barricata, ma nasce al di dentro
di quell’ecosistema che, sin qui, ha protetto il concetto di legittima
paternità di un risultato ritenuto fraudolento. Un avvenimento epocale, dunque.
Che rischia di alterare persino determinati equilibri, all’interno del club. E
che, secondo i più maligni, starebbe per spianare la strada ad un più o meno
imminente divorzio. Chissà. Involontariamente oppure no, intanto, il tecnico
salentino ricorda alla gente di ogni fede e colore e alla sua stessa società
quello che gli almanacchi e la realtà delle cose stanno cercando di farci
capire da un po’ di anni: il numero civico delle vittorie ufficialmente
intascate è il ventinove e non il trentuno. Forse, una verità troppo grande da
nascondere e un equivoco troppo evidente da sopportare. Anche per un
personaggio sanguigno e aggressivo come Conte. Anche per un guerriero
inossidabile e ferocemente mourinhizzato
come l’allenatore più chiacchierato d’Italia. E, adesso, persino meno
antipatico di quanto avremmo pensato immaginare.
mercoledì 29 gennaio 2014
Nocerina, sentenza prevista. E scontata
Certe notizie si attendono.
Perché è da un po’ che se ne parlava. E, si sa, determinati verdetti non sfuggono
dal segreto di un’istruttoria o di un procedimento legale solo per caso.
Perché, tante volte, sembra davvero tutto già scritto: molto prima che la
giustizia si pronunci. Certe sentenze sono previste. Perché il fatto (la
sospensione forzata di Salernitana-Nocerina) era e resta grave, chiassoso, mediaticamente
voluminoso. E perché il rischio di incentivare il rampantismo delle frange più
radicali del tifo organizzato esiste e intimorisce. Certe sentenze sono
gradite. Perché placano la sete di giustizia della collettività. Perché
tranquillizzano l’uomo della strada e lo sportivo comune. Lasciandogli credere
che tutto è sotto controllo, che il sistema funziona, sempre e comunque, che
tutto va come deve andare. L’esclusione della Nocerina dal campionato di
competenza, quello di terza serie, a lavori ancora in corso, era oggettivamente
scontata. E scontate erano pure le sanzioni ufficialmente inflitte in mattinata
dalla Commissione Disciplinare a dirigenti, tecnico e giocatori (alcuni) del club. Quello stesso club che,
peraltro, se l’è anche chiamata: fluttuando tra reticenze, piccole e grandi
bugie, ripensamenti e cattiva gestione della situazione. Prima, durante e dopo il
derby della vergogna. Finendo per pagare a caro prezzo. Perché l’Italia
del pallone è un po’ stanca. Di tutto. Perché un esempio serve ad educare.
Perché qualcosa avrebbe dovuto pur accadere. Perché, in fondo, questa è soltanto serie
C. Perché quello di Lega Pro è, di fatto, un angolo già mortificato
dall’imminente risistemazione dei campionati. E perché, magari, Nocera
Inferiore è periferia della Repubblica, lontana dai circuiti del potere, dal
cuore della finanza e dalla fede delle maggioranze. Una Nocerina in meno non
abbaglia, non stride e, soprattutto, non guasta mai. Semmai, addolcisce l’amaro. Del resto,
chissà, altrove una situazione del genre non sarebbe neppure accaduta. Perché il tessuto sociale, anche nel
calcio, può incidere. E perché, in categorie più elevate, la soglia di
attenzione dwgli addetti ai lavori è più marcata e anche gli indirizzi di autocomportamento sono mediamente più saldi. Fosse
capitato tutto più in alto, però, il problema sarebbe diventato più scottante,
più scomodo, più pesante. E il verdetto, probabilmente, meno previsto, meno
atteso.
martedì 21 gennaio 2014
Thohir, lezione numero uno
Rafforzarsi o ripianare. Guardare avanti, oppure tutelarsi. Evolversi o galleggiare. Spegnere la sete d’ambizione, oppure scontrarsi con la storia. L’Internazionale di Milano naviga tra il recente passato, troppo ingombrante, e il prossimo futuro, che già assomiglia a certi angoli bui frequentati per decenni, prima di tornare a vincere tutto. Moratti non c’è più. Non in prima linea, almeno. Ma c’è Thohir, indonesiano senza lo scrupolo della passione, presidente un po’ distante – anche geograficamente – che sgorga da una cultura diversa e da differenti esperienze di vita e d’affari. Vendere, prima di acquistare: è questa la strategia. Mai accaduto, a certi livelli. Dove, chi arriva, deve ritagliarsi il consenso. Vendere. O, al massimo, scambiare. Provando a guadagnarci qualcosa, magari. Il mercato di gennaio, intanto, è pronto a soccorrere il progetto. Emerge, così, l’idea: caricarsi l’ingaggio di Vučinić, che la Juve di Conte non apprezza più come un tempo, liberandosi contemporaneamente di Guarín: uno che, però, all’Inter di Mazzarri continuerebbe a servire. Soprattutto di questi tempi: in cui i risultati sgorgano faticosamente. Solo che, sotto la lente di una prima e sommaria analisi popolare, lo scambio appare tecnicamente sconveniente. Al di là del conguaglio da stabilire. La gente e l’opinione pubblica, cioè, non perdono troppo tempo a valutare la situazione e, immediatamente, bocciano il disegno. Che, in realtà, è assai più che un disegno: Vučinić ha già sostenuto le visite mediche a Milano. E altrettanto, a Torino, ha fatto Guarín. Come dire: è tutto già deciso, stabilito. Ma l’anima interista sobbolle, istigata da certi precedenti: le manovre congiunte con la Juventus, troppe volte, si sono rivelate deludenti, anacronistiche. Una fregatura, ecco. Ci sono ancora sacche di buona memoria, in questo Paese. E la tifoseria riconosce facilmente l’ingenua società di un tempo. La sollevazione mediatica, tuttavia, funziona. E, si dice, Moratti ci mette qualcosa di suo: una telefonata. Thohir, allora, decodifica il disagio e intuisce il pericolo di scollamento dell’ambiente. Planando sulla questione con pessima tempistica, ma con definitiva autorità. Stop, trattativa saltata. Rimane tutto com’è. Branca, se resterà, si regoli diversamente. L’opera di risanamento, chissà, proseguirà ugualmente. O anche no. Però senza il sapore acre dell'adiratissima Juve nel palato. Rafforzarsi o galleggiare: il problema, per il momento, si agita ancora. Ma le prime indicazioni gestionali arrivano dalla base, piaccia o no. Thohir, probabilmente, non se lo sarebbe mai aspettato: ma il calcio delle passioni e del campanile è anche questo. Lezione numero uno.
lunedì 13 gennaio 2014
La poltrona di cartone del vicereame
Galliani, Barbara Berlusconi: due poltrone per un solo
vicereame, quello del Milan. E due
personalità unite da un fragile ed inconfessabile segreto: per l’effetto del
quale l’anziano plenipotenziario, quanto prima, toglierà il disturbo. Al di là
delle dichiarazioni di comodo. Perché in certi ambienti è così: tutto va bene,
sino a nuovo ordine. E, dietro, l’ombra incombente del padrone Silvio. Che ha
già deciso di rinnovare: proprio tutto. E, contemporaneamente, di salvaguardare
l’armonia di famiglia: e ci mancherebbe, del resto. Quel padrone che, da tempo,
non ama Allegri. E che, nel tempo, più volte ha provato a defenestrare. Senza
riuscirci. Incocciando proprio nella dura corteccia di Galliani. Questa volta,
però, è davvero finita. E non solo per il tecnico, travolto da un ragazzo che
si chiama Domenico Berardi e che arriva da Cariati. Travolto dal Sassuolo. E travolto, innanzi tutto, dal suo stesso
destino, già tracciato e persino pubblicizzato con anticipo larghissimo: sei
mesi. E’ davvero finita, nel frattempo, anche per il Richelieu più longevo
d’Italia. Al quale era stata recentemente affidata la titolarità dell’area
tecnica. Costata anche abbastanza: cioè, la cessione dell’area amministrativa e
organizzativa. Barbara, però, scalpitava e scalpita ancora. Consapevole di
possedere spalle larghe e, soprattutto, coperte. Sufficienti, alla prima
occasione utile, per intervenire duramente. La figura magra di Sassuolo è
inaccettabile, detta. E, immediatamente dopo, cala il sipario. Due poltrone
sono troppe, in un vicereame. Solo una regge. L’altra è puro cartone. E le
bugie, nel calcio prima che altrove, affiorano presto.
sabato 4 gennaio 2014
Il tradimento e la scelta
Vladimir Petković è un signore di garbo infinito e di
atteggiamenti glaciali. Arrivato alla Lazio, all’inizio della scorsa stagione,
piacque sùbito. Alla gente che ama il pallone, alla tifoseria che affolla la
curva nord dell’Olimpico e, infine, a Claudio Lotito, il suo datore di lavoro.
Bella presenza, buone maniere, un buon sistema di gioco e, proprio in coda al
campionato, una gran bella soddisfazione: la Coppa Italia. Non un
trofeo qualsiasi, per chi vince saltuariamente: soprattutto, se la finale è
anche un derby. Il derby di Roma. Ma le situazioni si evolvono. E alcune si
involvono. La Lazio
perde qualcosa. Non si rafforza. Lo spogliatoio si inquieta. Probabilmente,
Petković perde pure un po’ di peso specifico. I risultati corrono dietro agli
avversari, troppo spesso. La squadra, cioè, non sa ripetersi.
Contemporaneamente, il tecnico bosniaco comincia a piacere alla Federazione
svizzera, che cerca un nuovo driver,
da giugno in poi. Il flirt sfocia nell’accordo, assolutamente
legittimo: proprio a giugno scade il contratto con la Lazio, è tutto in regola.
L’allenatore stenta a pubblicizzare la novità. Infine, la Federazione Svizzera
rompe il silenzio e diffonde un comunicato ufficiale. Petković, a fine stagione,
saluta l’Italia e passa il confine. Lotito, in realtà, la prende male. Molto
male. Anche se, di fatto, cerca da tempo di liberarsi del tecnico e di affidare
la Lazio a
qualcun altro. Magari, risparmiando su un ingaggio. Niente, Petković non si
dimette. Non si muove. Sino a giugno. A meno che non arrivi l’esonero. Ed è
proprio questo l’ultimo atto: il presidente si inventa anche il licenziamento
per giusta causa. Per tradimento. E se si trattasse, invece, di semplice
legittimazione della titolarità di una scelta? Lasciare un incarico per
assumerne un altro, altrove: talvolta, succede. Anche se i padroni della nostra
quotidianità, da un po’, si sono abituati troppo bene.
giovedì 5 dicembre 2013
Rumo ao hexa
Dunque, si parte. Più o meno
ufficialmente. Prima, i sorteggi dei gironi: proprio in questi giorni. Poi, la
scelta delle location: affinché
chiunque possa prepararsi come meglio conviene. Infine, tutto il resto. Anche
se gli stadi non sono ancora ultimati. Malgrado troppi inconvenienti separino
la teoria dalla realtà. Nonostante un dibattito acceso animi e attraversi la
società brasiliana. Profumo di Mondiali, diciamo così. Netto e delineato. Ovunque
e, innanzi tutto, nel più grande dei paesi del Sudamerica. Dove non esiste
alternativa al successo: per una questione di blasone, ovvero di tradizione.
Perché, ovviamente, giocare in casa è tutta un’altra cosa. E infine perché, dall’altra
parte del mondo, una formazione europea non ha mai vinto il titolo. Tra
orgoglio, sicurezza, nazionalismo e passione, striscia pure un po’ di
arroganza. E’ quell’istinto di superiorità, quel quoziente di presunzione che,
del resto, corteggerebbe tutti: l’Argentina, se i tacchetti si incrociassero,
la prossima estate, tra Baires e Rosario. La Germania, se la palla
rotolasse a Monaco o ad Amburgo. La
Spagna, se la kermesse
fosse ospitata ad ovest dei Pirenei. L’Italia, se il campionato si disputasse a
queste latitudini. E potremmo continuare. Di certo, però, da un po’ di
settimane la macchina organizzativa brasiliana, la stessa federazione verdeoro
e l’ambiente tutto provano ad alzare il livello di tensione emotiva. E non solo
per occultare le proposte, lo spessore intellettuale e il sèguito, anche e
soprattutto mediatico, del Bom Senso FC, che poi è un movimento di recente
costituzione, autogestito da calciatori impegnati nel Brasileirão e da addetti ai lavori, ormai convinti
dell’improcastinabile necessità di modificare vecchie abitudini e calendari
agonistici. In queste giorni, anzi, ci mette del suo Felipe Scolari, il
commissario tecnico della Seleção: il Brasile, afferma candidamente, vincerà il
Mondiale. Semplice e chiaro. Rumo ao hexa,
allora. Proviamo a guardare un po’ più in là e capiamo le intenzioni: i
problemi, dal punto di vista organizzativo, non difettano e occorre pur
cominciare ad accendere l’opinione pubblica. A coinvolgere la gente. Il
problema, però, è che la nazione pentacampeã ha già
ospitato i Mondiali, esattamente sessantatre anni fa. Perdendoli. Davanti ad un
Maracanã lotado e a un Uruguay
irriverente. Fu un disastro, allora: e non soltanto dal punto di vista
squisitamente calcistico. Anche quella volta, il Brasile si avvicinò al torneo
favorito, orgoglioso, sicuro di sé e arrogante. Non bastarono Ademir, Zizinho e
Jair. Poi, il Paese intero si abbattè su Barbosa, il portiere vessato e,
quindi, dimenticato. Il duemilaquattordici, invece, è il tempo di Neymar, ma
anche dei Luís Gustavo, degli Hulk, di Bomfim
Dante. Tutt’altro materiale, onestamente. Che la vittoria nell’ultima Confederation Cup della Seleção, peraltro, rischia di aver
sovrastimato eccessivamente. Ci pensi un attimo, Felipão, prima di sbilanciarsi ancora.
lunedì 2 dicembre 2013
Piccoli tifosi crescono
Certe curve esagerano. Molte sono recidive. Nella
zona più franca che c’è, scranni del Parlamento a parte, si ripetono ingiurie,
inni beceri, minacce, apologie di reato e chissà che altro. La nuova ondata
repressiva del Palazzo colpisce qua e là: risvegliando le proprie coscienze,
prima ancora di quelle del nemico più o meno dichiarato. Ieri, pagava il popolo
più fedele alla Juventus: curva chiusa alla professione del tifo, come da sentenza
recente della giustizia sportiva. Ma un settore totalmente vuoto, in uno
stadio, non è uno spettacolo decente. Soprattutto, se l’impianto è nuovo e
polifunzionale: dunque, assolutamente a norma e perfettamente agibile. Il club,
allora, prova ad aggirare l’ostacolo. E, anche meritoriamente, propone di
dirottare su quegli spalti un oceano di bambini, con le proprie famiglie.
Chiamatela operazione-simpatia o come preferite: certe iniziative vogliono
rappresentare un messaggio, una speranza. E, poi, impreziosiscono la retorica che
soffia sempre forte negli studi delle televisioni generaliste o nei fondi di
qualsiasi colonna di giornale. Ben vengano, quindi. Nel mezzo di
Juventus-Udinese, però, quell’oceano di gioventù candida e gaudente si lascia
trasportare. E fuorviare. Sarà per il palcoscenico che lo ha accolto. Sarà per
le cattive abitudini che viaggiano per il web
e che, perciò, si autopubblicizzano, corrodendo la nostra quotidianità. Sarà
per il progressivo imbarbarimento dei costumi, che così velocemente spazza
questo paese. E sarà anche perché chi accompagna i giovanissimi festanti - gli
adulti, evidentemente - non pensa neppure per un secondo a limitare gli effetti
di un entusiasmo che va al di là del garbo (giusto: in Italia si può fare e
dire di tutto, perché intervenire e interferire sullo show che avanza?). Comunque, ad ogni rimessa dal fondo di Željko Brkić, il
portiere serbo della formazione friulana, corrisponde puntualmente un controcanto persino
spiritoso, ma ugualmente offensivo. Che, indubbiamente, finisce per ammaccare
le finalità di un’iniziativa incoraggiante. Lasciandoci pensare seriamente che
ogni goccia di speranza, in realtà, va guadagnata con lavoro duro e profondo:
sulla mentalità dell’italiano medio. E che tanti piccoli tifosi, nella
penisola, crescono. Male.
sabato 30 novembre 2013
La giovane rampante e l'antico Richieleu
Lei è giovane, bella, rampante, aggressiva. Erede designata di un impero calcisticamente robusto. Si chiama Barbara. E, di cognome, fa Berlusconi: un marchio di fabbrica. Lui è l’antico Richieleu del pallone italiano, uomo di lotta e di governo, di rustica passione e sottile managerialità. Si chiama Adriano Galliani, plenipotenziario del club più titolato, in Europa. Più del Real, come confermano le statistiche ufficiali. Immagine e sostanza della società: tra storia e futuro. Lei spinge, sgomita, si arrampica, guadagna spazio, accusa e sentenzia. Certe logiche sono sorpassate. Determinate amicizie non convincono. Alcune strategie vanno aggiornate. E così via. Lui, galantuomo vecchia specie (certifica persino José Mourinho, avversario epocale), incassa, assorbe, deglutisce. E assiste con aplomb: prima di decidere. Prima di pubblicizzare il prossimo (e apparentemente scontato) disimpegno. Con una dichiarazione rilanciata immediatamente da ogni agenzia di stampa, da qualsiasi sito web, da tutta la stampa nazionale e internazionale. Salvaguardando, magari, la serena quotidianità del Milan e della squadra: che, a breve, si giocherà la qualificazione alla seconda fase di Champion’s. In attesa di un risveglio, seppur graduale, in campionato. La guerra è generazionale: il nuovo che avanza, il vecchio che resiste. Ma non solo: è anche una battaglia più terrena, che si evolve tra mancate empatie, negli spazi ristretti che non ammettono più di un unico sovrano. Lei delegittima il governatore di quasi trent’anni di calcio. Lui capisce che è il momento di lasciare. Con classe, va riconosciuto. Con garbo. Senza strattonare. Ma il padrone del battello, tra i mari burrascosi della sua vita politica e privata, non può cancellare la storia, come se niente stesse accadendo. Silvio Berlusconi rompe il silenzio e, proprio al novantesimo, come quasi sempre succede, interviene. Solidificando, se mai ce ne fosse bisogno, le referenze del suo amministratore delegato, amico di sempre e compagno di avventura consumato. E’ tutto a posto, nel Milan non esistono correnti, non c’è spazio per la discordia. Tutto a posto, Galliani ha scherzato. Non ci saranno dimissioni: né dopo il match di Coppa con l’Ajax, né mai. Il Richelieu di casa nostra rimane. E governerà ancora a lungo. Con Barbara, Silvio troverà una soluzione. L’immagine è salva. E pure la sostanza. Anche se Galliani, in fondo, aveva capito il problema, accettato la realtà: il rinnovamento, molte volte, è necessario. Purché suffragato dalla forma: tradita nei fatti. Quella forma a cui non rinuncia, piuttosto, il padrone del Milan. Senza badare troppo, magari, all’essenza del problema. Che resta. Barbara da una parte, Adriano dall’altra. E, in mezzo, una frattura profonda.
lunedì 25 novembre 2013
L'urgenza che cancella la boutade
Avevamo dribblato i fatti di Salerno, bypassato la tragicomica nocerina nel derby mai sbocciato dell’Arechi. Volutamente. Primo, perché ha gareggiato chiunque, nella palestra dei commenti. E, tante volte, una voce in più non serve. Secondo, perché la retorica facile non ci coinvolge. Terzo, perché spigolare tra le debolezze del sistema, l’inutilità di certi provvedimenti di palazzo, le contraddizioni delle norme e delle regole, l’inefficacia di certe misure preventive, lo strapotere di alcune frange del tifo italiano e i conflitti di tanti interessi significa sprecare troppe parole, senza peraltro giungere ad alcun obiettivo. Quarto, perché troppi particolari hanno finito per traghettare una buona fetta dell’opinione pubblica verso soluzioni semplicistiche. Tempo dopo, però, di una cosa siamo ormai sicuri: qualcosa di grave è accaduto. Prima, durante e dopo quella partita che la Nocerina ha rinunciato a giocare, sulla spinta delle minacce della propria tifoseria: ancora da provare, ma evidentemente concrete. Prima, durante e dopo quei fotogrammi senza logica (perché, a quel punto, giocare? Sì, è vero, conosciamo la risposta, problemi di ordine pubblico, ma non ci convince). Mentre cominciano a delinearsi le posizioni, i punti di vista e le responsabilità. E anche le linee di difesa. L’ultima, in ordine di tempo, è quella della Nocerina, ormai seriamente preoccupata di dover di pagare duramente, anche con l’esclusione dal campionato e dalla prossima serie C unica (anche il rinvio del match successivo a quello di Salerno, in programma ieri con il Lecce, seppur immotivato nella sostanza, qualcosa lascia pensare). Sì, dice il direttore generale Pavarese, le minacce degli ultras ci sono state, tutti sapevano, anche la Questura: la confessione ai microfoni di Rai Sport. Se è vero, perché non dirlo. Se non é, invece, davvero così, perché non tentare anche questa strada per parare il verdetto che si sta abbattendo. Ma Pavarese, se qualcosa abbiamo capito, questa volta non mente. Mentiva sciattamente e ingenuamente, magari, proprio il giorno del derby, quando avrebbe voluto farci credere a cinque infortuni reali, nello spazio di pochi minuti. E all’esigenza di dover consumare tre cambi dopo pochi secondi di gioco. Chissà se, almeno oggi, avrà realizzato il basso profilo di certe dichiarazioni affrettate o, peggio, costruite artatamente per farsi beffa dell’intelligenza di ognuno di noi.
giovedì 17 ottobre 2013
L'Italia dei deboli e l'impunità dei forti
Dicevamo: le parole sono
pesanti. E vanno usate con intelligenza. E serietà. Altrimenti, meglio lasciarle
ad altri. Parlare (e pensare) male non è come scrivere colpevolmente, ma il
problema rimane ugualmente. Anche se le sillabe, più o meno infelici, scivolano
– quasi inosservate – in uno stadio. O all’interno di una tribuna stampa. Dove
sarebbe normale attendersi una migliore qualità intellettuale, se non altro.
Non solo di questi tempi, in cui continuiamo a discutere troppo spesso di
razzismo e di territorialità: ma sempre. Il dottor Baldassarre è un medico
assai conosciuto nella sua città, Foggia. Si è occupato di antidoping, per
anni. E, da anni, coltiva un’occupazione parallela: scrive. E, in alcuni
salotti televisivi, commenta. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco pubblicisti.
E, ovviamente, del Foggia è sostenitore appassionato. Possiede, come tanti,
precise idee politiche: diciamo pure di tenore decisamente nostalgico. Che non
ha mai nascosto, peraltro. Baldassarre, però, durante il minuto di silenzio
osservato in tutti i campi italiani, in memoria dei migranti annegati nelle
acque tra Lampedusa e l’Africa, non più di due domeniche addietro, ha
oggettivamente sprecato un’insostituibile occasione per tacere. Una frase di
cattivo gusto, ecco. Un po’ grossolana, becera. Ed anche retorica.
Diseducativa, se vogliamo. Prontamente riportata da chi c’era, duramente
censurata dall’Ordine stesso e, infine, sanzionata con un daspo. Cinque anni, in tutto: esattamente il tempo in cui
Baldassarre dovrà disertare gli stadi e frequentare la questura per la firma di
prassi. Condanna esemplare, come hanno detto e scritto. Eppure, per quel che ci
riguarda, anche esagerata. D’accordo, le parole pesano. E uccidono quasi quanto
le armi. Ma cinque anni sono una pena smisurata: soprattutto se comparata al
castigo inflitto – quando avviene – a chi, dentro e fuori del campo, nell’anonimato
di una curva o di una strada, commette qualcosa di molto peggio. A chi,
tuttavia, possiede un volto conosciuto o riconoscibile e, molto spesso, lascia
una firma indelebile, impunemente. Pretenderemmo, a questo punto, retate
settimanali: in ogni angolo d’Italia. E pene automatiche. Ma sappiamo che non
avverrà: Questo è il Paese di sempre: forte con i deboli e debole con i forti.
martedì 15 ottobre 2013
La democrazia e il peso delle parole
Mario Balotelli è quello di
sempre: teso, ruvido, nervoso. Un ragazzo un po’ così: a cui la vita qualcosa ha tolto, in passato. Restituendogli, più avanti, parecchio. Dal carattere
forte, ma in formazione. Talvolta inopportuno: nelle parole, nei comportamenti.
Da sembrare addirittura arrogante. Refrattario a certe consuetudini e certe
regole: scritte e non scritte. Un attaccante rampante ed esplosivo (sotto
qualsiasi angolazione) di ventitre anni che, sempre più spesso, si attira ogni
genere di complicazione: per leggerezza, superficialità, ingenuità o
sciatteria. Dimostrando esattamente quello che è: un professionista del pallone
universalmente considerato, ma anche disattento a certe dinamiche. E, comunque,
totalmente inserito nella sua quotidianità: in cui è preferibile apparire, prima
di tutto. Ma pure ingiustamente collocato al centro di qualsiasi questione:
anche in quelle più grandi di lui. E, per questo, difficilmente gestibile. Di
Balotelli, in realtà, si parla troppo, da sempre: questa è la verità. Persino
quando lui stesso ne farebbe a meno. Ancora prima che ci metta del proprio.
Come nelle ultime quarantotto ore. Il suo tweet,
in prossimità dell’incontro tra la
Nazionale di Prandelli e l’universo della legalità promosso
dai dilettanti del Quarto, non è passato inosservato: devitalizzando, seppur in
parte, lo spessore dell’iniziativa a cui la Federazione e lo
stesso coach sembravano e sembrano tenere parecchio (il codice etico, di questi
tempi, è cosa seria assai, per fortuna). E proprio Prandelli, più di altri, non
ha affatto gradito. Trovando immediatamente una contromisura che, di certo, non
possiede tutti i criteri di una soluzione democratica e che, perciò, fa già (e
farà ancora) discutere: ai prossimi Mondiali brasiliani, per i quali l’Italia è
già qualificata, verrà vietato a chiunque l’utilizzo dei social network, cioè uno dei simboli indiscussi di una generazione
proiettata nel mondo della comunicazione. Quella stessa comunicazione che molti
protagonisti, soprattutto tra i più giovani, faticano a decodificare e
utilizzare. Sarà poco democratico, Prandelli. Ma il concetto, in fondo, è
giusto: le parole sono pesanti. E, talvolta, non meritano di essere pubblicate.
lunedì 7 ottobre 2013
Evacuo e l'intolleranza da derby
Frizioni,
rivalità e male parole. Cose da derby. Da partite speciali. Nella metropoli,
come in provincia. Eppure, ci sono partite più speciali di altre. In cui si
alza lo steccato dell’intolleranza. Benevento e Nocerina viaggiano divise da
profonde inimicizie: sugli spalti, ovviamente. E Felice Evacuo è l’artigliere
principale dei sanniti: uno che, in categoria (la terza serie) può scavare la
differenza. Uno che, anche, possiede mercato: e che, in più occasioni, si è
ritrovato a cambiare casacca. Pure nel corso dell’ultima estate: ritornando da
un’avventura di sette mesi consumata proprio a Nocera. Bene: Evacuo segna (ma
il direttore di gara annulla) e non esulta: ormai è consuetudine. Che
fatichiamo a condividere. E, sin qui, tutto bene: anche se, in curva, qualcuno
potrebbe persino non aver gradito, chissà. Il Benevento, però, si impone
ugualmente, alla fine. Ma, proprio alla fine del derby, accade quello che non
dovrebbe accadere: l’attaccante, con tutta la squadra, saluta il proprio
pubblico e, prima di rientrare negli spogliatoi, si permette di omaggiare con
un applauso anche la sua ex tifoseria che lo chiama. Tutto normale. Anzi, no.
La reazione della torcida beneventana è veemente ed esagerata. E si riassume
nell’inopportuno comunicato diffuso immediatamente dopo: «Il signor Felice Evacuo entro stasera deve effettuare
la rescissione del contratto e contestualmente è pregato di lasciare la città.
L'eventualità che Evacuo possa presentarsi alla prossima seduta di allenamento
sarà considerato un affronto alla Curva Sud». Tutto vero, avete letto bene. Cose che accadono,
quando il tifo organizzato si arroga il diritto di determinare i destini di
chiunque e, in fondo, del calcio stesso. Più calibrata, piuttosto, è la
risposta di Oreste Vigorito, presidente del club: «Certi gesti andrebbero presi per quello
che sono: sportività». Sì, sportività. Quella condizione strana che l’italiano
medio, tante volte, ignora e rifugge. Che le curve, ancora troppo spesso,
denigrano e combattono. Che il calcio, giorno dopo giorno, disconosce e
annulla. Lasciandoci un senso di tristezza infinita. E facendoci capire quanto
il pallone assomigli, sempre di più, alla nostra quotidianità. Dove la normalità
è un universo distante, desueto, impraticabile. E l’anormalità è regola.
lunedì 30 settembre 2013
I veleni e il silenzio
E, dal momento che ci siamo, continuiamo. Agli
italiani, in fondo, piace così. E anche ai padroni del movimento calcistico
nazionale: colpevoli, soprattutto, di non adeguarsi alle novità tecnologiche
che, talvolta, potrebbero attutire le frizioni. Forse perché, senza, è più
agevole manovrare i destini altrui e radiocomandare il gioco. Sette giorni
dopo, un altro episodio di cattiva gestione dell’argomento offside spazza la serie A. Ne soffre, ovviamente, una società
solitamente maltrattata da decisioni e atteggiamenti arbitrali (il Torino). E
ci guadagna, ovviamente, un club politicamente forte (la Juventus). E’ solo un
caso (o forse no) che la partita sia innanzi tutto un derby: uno di quegli
avvenimenti che si caricano di tensioni suplettive e che trascinano polemiche
infinite, resistenti nel tempo. Ed è una coincidenza che proprio la Juve benifici, nello spazio
di soli sette giorni, di un altro aiuto provvidenziale. Provvidenziale
nell’immediato (il match è tirato, il Toro si cautela tenacemente, la formazione di Conte
zoppica e il risultato non si sblocca) e in prospettiva futura (logica alla
mano, se i bianconeri oggi stentano e vincono ugualmente, quando recupereranno
il proprio passo dovrebbero scavare una distanza incolmabile dagli avversari). Provvidenziale,
certo. Ma anche pericoloso: per il calcio, in generale. Perché, è inutile
fingere di ignorarlo, anche e soprattutto questi particolari derubano il
campionato della sua regolarità e il calcio della sua attendibilità. Sforzarsi
a parlare di buona fede, poi, sarà anche politicamente corretto: ma la gente
che vuole capire e pensare comincerà davvero a non crederci più. Sempre che ci
creda ancora. Anche questa volta, però,
la radiografia del misfatto ci interessa poco. Chi ha visto le immagini, sa. E
chi vuole accontentarsi gode. Infastidiscono di più, semmai, le repliche e le
controrepliche del club che si è avvantaggiato della nuova (ennesima)
situazione. Commenti, post e tweet ufficiali, alcuni persino grossolani (certe
dichiarazioni del tecnico, ad esempio, ci sembrano tatticamente anche
appropriate, ma eticamente inopportune): c’è di tutto. D’accordo: difendersi è
prassi normale, in ambito dialettico. E il confronto è la base della
democrazia. Ci sono momenti in cui, però, il silenzio semplifica le cose e
riduce gli attriti. Il silenzio: non tanto come ammissione di colpa. Ma come gesto
di distensione. Qualcuno non capirebbe ugualmente, però qualcun altro
gradirebbe, magari. I veleni, almeno, rimarrebbero tutti da una parte: dalla
parte degli sconfitti. Giustamente o ingiustamente, non importa: ma piegati da
un’ingiusta valutazione arbitrale. E, invece, i veleni circoleranno per un po’
anche dall’altra parte della barricata, quella premiata da un episodio chiarissimo.
Senza evaporare. Anzi, trasformandosi chimicamente in spocchia.
martedì 24 settembre 2013
L'aplomb e il miracolo della memoria
Scioccamente, ci eravamo riproposti di non ritrovarci sul luogo dei delitti di ogni domenica (o di ogni venerdì, o sabato: tanto, si gioca ogni giorno, ormai). Di dribblare le analisi e le polemiche che gocciolano da ogni singolo episodio controverso. Ogni singolo episodio che edifica una partita e, certe volte, un campionato: l’offside occultato o negato che offre l’urlo del gol, l’intervento mal interpretato che si trasforma in penalty o quello falloso che svicola nella lista dei non pervenuti. E, con l’episodio, tutto quello che segue: per un giorno, una settimana, un mese. O un anno. Ma il campionato è ripartito e si fa già molto sul serio: dunque, qualcosa accade sempre. E la nostra ingenuità frana con le migliori intenzioni. Eppure, non è tanto sull’episodio, questa volta, che ci concentreremo. Ma sugli scampoli di fair play che lo tallona. La rilassatezza che segue il fatto, intanto, va sottolineata e benedetta: a Verona la Juve supera il Chievo, segnando il punto decisivo dopo aver beneficiato di un errore evidente dell’assistente di linea Preti (recidivo, nello specifico: ma non infieriamo), che sbugiarda e condiziona il direttore di gara, De Marco. Il fuorigoco di Paloschi non c’è, punto e basta. E la marcatura andrebbe, invece, convalidata. Sannino, coach clivense, è uomo di stile e di sport e accetta la decisione senza agitarsi. Come il presidente Campedelli, come tutto l’ambiente. Voto: nove. Dall’altra parte, sùbito dopo, parole sincere di stima per l’aplomb degli avversari. Il tecnico juventino Conte, anzi, fa anche di più, ammettendo il peso specifico di quello che possiamo ritenere un regalo involontario e dettando frasi distensive. Del tipo: il comportamento del Chievo è un esempio per tutti, chiunque dovrebbe ragionare così, quando l’errore arbitrale premia e anche quando penalizza. Voto: nove e mezzo. Sottoscriviamo la bontà dei concetti: consapevoli, tuttavia, che certi pensieri non si duplicheranno facilmente. Mentre aspettiamo che proprio lui, Conte, faccia altrettanto alla prima occasione negativa, se e quando accadrà. La stagione passata, ad esempio, la possibilità gli passò davanti un paio di volte, non di più. Ma transitò invano. Però, forse, erano altri tempi. Che, adesso, son cambiati. Fingiamo di crederci. Confidando nel miracolo della memoria.
sabato 24 agosto 2013
Sheik e la sconfitta di noi tutti
Nessuno dei cinque continenti sembra ancora abituato ad assorbire sconvolgimenti concettuali, a deglutire storie
di ordinaria umanità, a tollerare il prezzo della diversità, a gestire la
democrazia. E il sesto, quello del pallone, ancora meno. Se il calcio è guerra
di religione, non c’è assoluzione per niente e per nessuno. Le regole non
scritte impongono la propria legge: tutto ruota attorno all’onore. Della maglia
e delle fede di chi vive per la maglia. L’onore, prima di tutto: e stop. Che non va
scalfito: soprattutto dall’avversario. Il più interessato, cioè, a denigrare,
ad insultare. Il calcio, del resto, è un circolo tribale. E guai a ridursi
nelle condizioni di essere derisi. E trafitti. Emerson Sheik è un attaccante brasiliano, in dote ad una delle formazioni più amate e decorate
del paese sudamericano, il Corinthians. Ovvero, anche il club tradizionalmente
più vicino alla materia dei diritti del singolo (ricordate la Democracia Corintiana
instaurata da Sócrates e compagni nel mezzo della dittatura militare, negli anni ottanta del secolo appena trascorso?). Ecco,
Sheik è una persona normalissima. Con una famiglia già formata. Eppure,
ritratto – per scherzo, per gioco, per quella strana mania di spedire in rete
tutto ciò che ci riguarda e che riguarda chi è prossimo a noi – in una foto
compromettente, scattata e postata da un social network. In cui si scambia – per
scherzo, per gioco, per quella strana mania di voler vivere ogni momento sul
palcoscenico – un’effusione con un altro uomo: facilmente decodificabile tra
quelle sconvenienti. E ovviamente condannata: in particolare dalla gente che
tifa per la formazione paulistana. Assalita, dunque, nell’intimo del proprio orgoglio,
assaltata nei meandri della propria fede. E, comprensbilmente, nuovo oggetto di scherno nemico:
sponda Palmeiras, soprattutto. La gente, il mondo e, in particolare, il pallone
non sono ancora preparati alle rivoluzioni culturali, dicevamo. Inutile girarci attorno. Così, la Fiel, la torcida corintiana,
ha immediatamente preteso un chiarimento. Anzi, pubbliche scuse. E Sheik,
travolto dai riflettori, ha vissuto male questo momento inatteso: pagando il
nervosismo accumulato anche con l’espulsione in Coppa del Brasile, nel corso di
un match (perso) contro la
Luverdense, formazione di terza serie. Fino a cedere, sotto
la pressione delle convenienze. Quindi, rammarico e autocensura, tutto in un
incontro appositamente organizzato con la tifoseria organizzata. In sostanza,
una formale richiesta di perdono: per non aver commesso, è questo il lato più
triste della storia, alcun crimine. E, tra le parole spese, una motivazione di
fondo: «In un ambiente pieno di rivalità e provocazioni, qualsiasi questione
può essere motivo di speculazione». Ecco l’ennesima, irrimediabile sconfitta. Di tutti.
venerdì 2 agosto 2013
Calcio, affari e l'incertezza delle regole
Blatter spinge, l'International Board si adegua, la norma cambia. Il potere del presidente, monarca assoluto del pallone che ancora riesce a sopravvivere a se stesso, si estende. E si riduce quello dell'unico organo calcistico autenticamente indipendente, almeno sino a pochi anni fa. Da questa stagione, la regola del fuorigioco, concetto di mille battaglie verbali, si completa e si complica. L'offside, del resto, è quel buco nero che inghiotte tutto e tutti: anche la storia e la tradizione. Il pallone si evolve: succede, quando conviene a chi può. E qualunque cosa è possibile, nel nome del progresso. E del business. La new economy del calcio vuole un gioco più facile: che, proprio per questo, diventa sempre più difficile. Un gioco che, oggi più di ieri, sappia ingolosire chi muove i fili. E, dunque, chi ne trae profitti. La norma, in sostanza, si piega alle logiche della convenienza e si abbruttisce. Orami è deciso: dalla stagione agonistica appena partita, quando un giocatore si dirige verso la palla, andrà considerata anche la distanza e la possibile interferenza dell'attaccante nei confronti del difensore. Materia buona per alzare il quoziente di discrezionalità del direttore di gara: esattamente quello di cui faremmo volentieri a meno. Dunque, per ingigantire il peso dele polemiche, delle accuse e degli abusi. E per alimentare il livello di acidità dei nostri campionati, ovviamente. L'equazione è semplice: meno vincoli regolamentari, più occasioni da gol, più spettacolo. Sarà. Persino Nicchi sembra aver bocciato l'idea. Alla quale, lui per primo, dovrà adeguarsi. L'allenatore degli arbitri italiani prevede nuovi bordellacci infami: e fa bene a temerli. Tornare indietro, però, non si può: è già tutto deciso. Seguendo un disegno chiaro: difettando la certezza della pena (o, in questo caso, del regolamento), amministrare il sottobosco e dirigere il traffico in bilico tra il lecito e l'illecito è più facile. Nel pallone come nella quotidianità di tutti noi. E chi ci governa lo sa bene.
martedì 4 giugno 2013
Milan, chi vince e chi perde
Tante, troppe settimane per incrociare il punto di partenza. Tanti, troppi giorni per genuflettersi di fronte alla realtà di un contratto. Che, talvolta, anche in Italia occorre rispettare. Tante, troppe pagine di giornali, minuti di televisione pubblica e privata e conversazioni sprecati: per poi abituarsi, tutti, ad una decisione datata nel tempo. Minacciata, sì, ma anche meravigliosamente inattaccabile dai fatti: che sono, poi, gli ostacoli economici, gli intrighi di Palazzo e il buon senso che, per una volta, la piazza - tradizionalmente umorale, puntualmente forcaiola - riesce a riesumare e ad utilizzare. Anche in questo caso, però, non c'è la notizia. Perchè la conferma di Allegri sulla panchina del Milan notizia non è. Il trainer livornese resta dov'è: come da accordi intercorsi in epoche più o meno remote. E, appunto, sottintesi tra le parole di un contratto. Che Berlusconi, il garnde inquisitore e, si dice, anche il grande sconfitto, deve deglutire con amarezza. Rinviando il discorso con Clarence Seedorf, successore già designato del coach che rimane. Delegittimato, Allegri, da incursioni verbali e manovre chiarissime: eppure, disposto - nonostante la certificata mancanza di feeling con la proprietà - a proseguire il viaggio con il club di via Turati. E a rinunciare alle proposte pressanti della Roma. E sì, perchè l'allenatore toscano fermo non sarebbe rimasto, comunque. Gratificato, oltre tutto, dalla robusta buona uscita che il Milan non ha saputo (o voluto) garantirgli. Perde Berlusconi, vince Allegri: dopo una prima analisi dei fatti, sembra davvero così. Non ci giureremmo, comunque: intanto, perchè il patron ottiene in cambio, come una nota ufficiale fa trasparentemente affiorare, una condivisione di vedute tra la panchina e la prima scrivania. Una specie di collaborazione complicata e, forse, anche pericolosa: diciamo pure così. Allegri, poi, dovrà necessariamente accontentarsi di quanto il mercato consentirà alla società: prendere o lasciare. E poi sa benissimo che, da qui in poi, niente gli sarà perdonato. Il quadro, adesso, è più nitido. Berlusconi perde qualcosa, Allegri non vince. Qualcosa, per dirla tutta, concede pure la dinastia del presidente: convinta com'era di liberarsi della presenza scomoda di Galliani, tutor máximo di Allegri. Passando la linea paterna, Barbara Berlusconi avrebbe oggettivamente obbligato l'amministratore delegato a sgonfiarsi. Ed è proprio il capolavoro tattico e diplomatico di Galliani a scolpire questa storia. E' proprio questo Richelieu dei giorni nostri a ritagliarsi un successo rumoroso e totale. Spartendosi i meriti con le curve del Meazza e la squadra, sponsor di seconda fascia dell'allenatore. Utili nella corsa all'obiettivo: ma assolutamente impotenti, anche abbastanza presto, se la stagione milanista dovesse partir male. O non troppo brillantemente. Perchè il consenso popolare è etereo e vago. E perchè una squadra non si cambia, così all'improvviso. Però un allenatore, prigioniero di un contratto e di qualche clausola non scritta (ma ampiamente pubblicizzata), sì.
lunedì 3 giugno 2013
Gattuso, personalità e sana incoscienza
Gennaro Gattuso è un combattente abituato alla battaglia, votato alla sfida. E la sua nuova sfida si chiama panchina. Ci ha già provato al Sion, in Svizzera, ancora con la mansione ufficiale di leader sul campo, di giocatore di lotta e prestigio. Ma l'Italia è un'altra dimensione. E le panchine della penisola pretendono e scottano di più: malgrado l'esperienza al di là del confine sia maturata al fianco di un presidente volubile e scomodo. Partire dalla serie B è l'ideale: gavetta pregiata, distanze minime dal pallone che conta davvero. Certo, però, che Palermo, nell'universo della seconda serie, è un'altra cosa. Per il passato (quello recente, soprattutto) del club e per le esigenze di una piazza importante (la quinta realtà italiana, ricordiamolo), ancorchè delusa dagli ultimi eventi. E, innanzi ad ogni altro discorso, per la vorace inquietudine del suo patron Zamparini, il nemico numero uno di chi si siede sulla panca. Traduzione: ci vuole coraggio. Cioè: cominciare così, nella casa delle incognite, è una sfida dentro la sfida. Uno spreco supplementare di energie psichiche e nervose. Ma. in certe situazioni, serve anche personalità: che a Gattuso non manca. E un po' di sana incoscienza, anche. Quella che, forse, spinge un allenatore che deve scalare il suo primo vero incarico di caudillo. E che, proprio per questa strana condizione, non possiede ancora nulla da perdere, sul piano dell'immagine. Una qualità che, di contro, sembra convincere anche Zamparini. Trovatosi, immaginiamo, di fronte ad un altro problema: convincere qualcun altro ad accettare la proposta. Perchè di tecnici lanciati verso una stagione di interrogativi se ne trovano sempre meno.
mercoledì 8 maggio 2013
E, dal Palazzo, silenzio imbarazzante
Silenzio imbarazzante. E, speriamo, anche un po' imbarazzato. Nelle ore e pure nei giorni immediatamente successivi ai festeggiamenti juventini, la Lega e la Federazione non sono intervenuti ufficialmente: nè per legittimare le rivendicazioni della società bianconera (che ha urlato il diritto di fregiarsi della terza stella e del trentunesimo titolo guadagnato, a fronte dei ventinove scudetti vantati), nè per bacchettare quella che sembra una prevaricazione alle più elementari regole del pallone. Operazione che ritenevamo e riteniamo ancora doverosa, oltre che automatica. Abete, il presidente federale, è in realtà apparso timidamente: complimentandosi con i vincitori e ribadendo che il suo punto di vista non è mutato. Senza approfondire, cioè: blindandosi in una posizione morbida, troppo blanda. Ci incuriosirebbe, allora, la reazione del massimo dirigente e del Palazzo tutto se, un giorno qualsiasi, il Torino dovesse cominciare a pubblicizzare i suoi otto titoli contabilizzati sul campo, invece dei sette riconosciuti. O se l'Inter dovesse arrogarsi il diritto di aggiungersi uno scudetto in più: per esempio, quello del cinque maggio di qualche anno fa. O se, altrettanto, dovesse fare la Roma. O la Fiorentina. E tutti quei club che si ritengono, a torto o a ragione, defraudati di qualcosa. Non solo negli ultimi quarant'anni.
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