mercoledì 29 gennaio 2014

Nocerina, sentenza prevista. E scontata


Certe notizie si attendono. Perché è da un po’ che se ne parlava. E, si sa, determinati verdetti non sfuggono dal segreto di un’istruttoria o di un procedimento legale solo per caso. Perché, tante volte, sembra davvero tutto già scritto: molto prima che la giustizia si pronunci. Certe sentenze sono previste. Perché il fatto (la sospensione forzata di Salernitana-Nocerina) era e resta grave, chiassoso, mediaticamente voluminoso. E perché il rischio di incentivare il rampantismo delle frange più radicali del tifo organizzato esiste e intimorisce. Certe sentenze sono gradite. Perché placano la sete di giustizia della collettività. Perché tranquillizzano l’uomo della strada e lo sportivo comune. Lasciandogli credere che tutto è sotto controllo, che il sistema funziona, sempre e comunque, che tutto va come deve andare. L’esclusione della Nocerina dal campionato di competenza, quello di terza serie, a lavori ancora in corso, era oggettivamente scontata. E scontate erano pure le sanzioni ufficialmente inflitte in mattinata dalla Commissione Disciplinare a dirigenti, tecnico e giocatori (alcuni) del club. Quello stesso club che, peraltro, se l’è anche chiamata: fluttuando tra reticenze, piccole e grandi bugie, ripensamenti e cattiva gestione della situazione. Prima, durante e dopo il derby della vergogna. Finendo per pagare a caro prezzo. Perché l’Italia del pallone è un po’ stanca. Di tutto. Perché un esempio serve ad educare. Perché qualcosa avrebbe dovuto pur accadere. Perché, in fondo, questa è soltanto serie C. Perché quello di Lega Pro è, di fatto, un angolo già mortificato dall’imminente risistemazione dei campionati. E perché, magari, Nocera Inferiore è periferia della Repubblica, lontana dai circuiti del potere, dal cuore della finanza e dalla fede delle maggioranze. Una Nocerina in meno non abbaglia, non stride e, soprattutto, non guasta mai. Semmai, addolcisce l’amaro. Del resto, chissà, altrove una situazione del genre non sarebbe neppure accaduta. Perché il tessuto sociale, anche nel calcio, può incidere. E perché, in categorie più elevate, la soglia di attenzione dwgli addetti ai lavori è più marcata e anche gli indirizzi di autocomportamento sono mediamente più saldi. Fosse capitato tutto più in alto, però, il problema sarebbe diventato più scottante, più scomodo, più pesante. E il verdetto, probabilmente, meno previsto, meno atteso.    

martedì 21 gennaio 2014

Thohir, lezione numero uno


Rafforzarsi o ripianare. Guardare avanti, oppure tutelarsi. Evolversi o galleggiare. Spegnere la sete d’ambizione, oppure scontrarsi con la storia. L’Internazionale di Milano naviga tra il recente passato, troppo ingombrante, e il prossimo futuro, che già assomiglia a certi angoli bui frequentati per decenni, prima di tornare a vincere tutto. Moratti non c’è più. Non in prima linea, almeno. Ma c’è Thohir, indonesiano senza lo scrupolo della passione, presidente un po’ distante – anche geograficamente – che sgorga da una cultura diversa e da differenti esperienze di vita e d’affari. Vendere, prima di acquistare: è questa la strategia. Mai accaduto, a certi livelli. Dove, chi arriva, deve ritagliarsi il consenso. Vendere. O, al massimo, scambiare. Provando a guadagnarci qualcosa, magari. Il mercato di gennaio, intanto, è pronto a soccorrere il progetto. Emerge, così, l’idea: caricarsi l’ingaggio di Vučinić, che la Juve di Conte non apprezza più come un tempo, liberandosi contemporaneamente di Guarín: uno che, però, all’Inter di Mazzarri continuerebbe a servire. Soprattutto di questi tempi: in cui i risultati sgorgano faticosamente. Solo che, sotto la lente di una prima e sommaria analisi popolare, lo scambio appare tecnicamente sconveniente. Al di là del conguaglio da stabilire. La gente e l’opinione pubblica, cioè, non perdono troppo tempo a valutare la situazione e, immediatamente, bocciano il disegno. Che, in realtà, è assai più che un disegno: Vučinić ha già sostenuto le visite mediche a Milano. E altrettanto, a Torino, ha fatto Guarín. Come dire: è tutto già deciso, stabilito. Ma l’anima interista sobbolle, istigata da certi precedenti: le manovre congiunte con la Juventus, troppe volte, si sono rivelate deludenti, anacronistiche. Una fregatura, ecco. Ci sono ancora sacche di buona memoria, in questo Paese. E la tifoseria riconosce facilmente l’ingenua società di un tempo. La sollevazione mediatica, tuttavia, funziona. E, si dice, Moratti ci mette qualcosa di suo: una telefonata. Thohir, allora, decodifica il disagio e intuisce il pericolo di scollamento dell’ambiente. Planando sulla questione con pessima tempistica, ma con definitiva autorità. Stop, trattativa saltata. Rimane tutto com’è. Branca, se resterà, si regoli diversamente. L’opera di risanamento, chissà, proseguirà ugualmente. O anche no. Però senza il sapore acre dell'adiratissima Juve nel palato. Rafforzarsi o galleggiare: il problema, per il momento, si agita ancora. Ma le prime indicazioni gestionali arrivano dalla base, piaccia o no. Thohir, probabilmente, non se lo sarebbe mai aspettato: ma il calcio delle passioni e del campanile è anche questo. Lezione numero uno.

lunedì 13 gennaio 2014

La poltrona di cartone del vicereame



Galliani, Barbara Berlusconi: due poltrone per un solo vicereame, quello del Milan.  E due personalità unite da un fragile ed inconfessabile segreto: per l’effetto del quale l’anziano plenipotenziario, quanto prima, toglierà il disturbo. Al di là delle dichiarazioni di comodo. Perché in certi ambienti è così: tutto va bene, sino a nuovo ordine. E, dietro, l’ombra incombente del padrone Silvio. Che ha già deciso di rinnovare: proprio tutto. E, contemporaneamente, di salvaguardare l’armonia di famiglia: e ci mancherebbe, del resto. Quel padrone che, da tempo, non ama Allegri. E che, nel tempo, più volte ha provato a defenestrare. Senza riuscirci. Incocciando proprio nella dura corteccia di Galliani. Questa volta, però, è davvero finita. E non solo per il tecnico, travolto da un ragazzo che si chiama Domenico Berardi e che arriva da Cariati. Travolto dal Sassuolo. E travolto, innanzi tutto, dal suo stesso destino, già tracciato e persino pubblicizzato con anticipo larghissimo: sei mesi. E’ davvero finita, nel frattempo, anche per il Richelieu più longevo d’Italia. Al quale era stata recentemente affidata la titolarità dell’area tecnica. Costata anche abbastanza: cioè, la cessione dell’area amministrativa e organizzativa. Barbara, però, scalpitava e scalpita ancora. Consapevole di possedere spalle larghe e, soprattutto, coperte. Sufficienti, alla prima occasione utile, per intervenire duramente. La figura magra di Sassuolo è inaccettabile, detta. E, immediatamente dopo, cala il sipario. Due poltrone sono troppe, in un vicereame. Solo una regge. L’altra è puro cartone. E le bugie, nel calcio prima che altrove, affiorano presto.

sabato 4 gennaio 2014

Il tradimento e la scelta



Vladimir Petković è un signore di garbo infinito e di atteggiamenti glaciali. Arrivato alla Lazio, all’inizio della scorsa stagione, piacque sùbito. Alla gente che ama il pallone, alla tifoseria che affolla la curva nord dell’Olimpico e, infine, a Claudio Lotito, il suo datore di lavoro. Bella presenza, buone maniere, un buon sistema di gioco e, proprio in coda al campionato, una gran bella soddisfazione: la Coppa Italia. Non un trofeo qualsiasi, per chi vince saltuariamente: soprattutto, se la finale è anche un derby. Il derby di Roma. Ma le situazioni si evolvono. E alcune si involvono. La Lazio perde qualcosa. Non si rafforza. Lo spogliatoio si inquieta. Probabilmente, Petković perde pure un po’ di peso specifico. I risultati corrono dietro agli avversari, troppo spesso. La squadra, cioè, non sa ripetersi. Contemporaneamente, il tecnico bosniaco comincia a piacere alla Federazione svizzera, che cerca un nuovo driver, da giugno in poi.  Il flirt sfocia nell’accordo, assolutamente legittimo: proprio a giugno scade il contratto con la Lazio, è tutto in regola. L’allenatore stenta a pubblicizzare la novità. Infine, la Federazione Svizzera rompe il silenzio e diffonde un comunicato ufficiale. Petković, a fine stagione, saluta l’Italia e passa il confine. Lotito, in realtà, la prende male. Molto male. Anche se, di fatto, cerca da tempo di liberarsi del tecnico e di affidare la Lazio a qualcun altro. Magari, risparmiando su un ingaggio. Niente, Petković non si dimette. Non si muove. Sino a giugno. A meno che non arrivi l’esonero. Ed è proprio questo l’ultimo atto: il presidente si inventa anche il licenziamento per giusta causa. Per tradimento. E se si trattasse, invece, di semplice legittimazione della titolarità di una scelta? Lasciare un incarico per assumerne un altro, altrove: talvolta, succede. Anche se i padroni della nostra quotidianità, da un po’, si sono abituati troppo bene.