Certe notizie si attendono.
Perché è da un po’ che se ne parlava. E, si sa, determinati verdetti non sfuggono
dal segreto di un’istruttoria o di un procedimento legale solo per caso.
Perché, tante volte, sembra davvero tutto già scritto: molto prima che la
giustizia si pronunci. Certe sentenze sono previste. Perché il fatto (la
sospensione forzata di Salernitana-Nocerina) era e resta grave, chiassoso, mediaticamente
voluminoso. E perché il rischio di incentivare il rampantismo delle frange più
radicali del tifo organizzato esiste e intimorisce. Certe sentenze sono
gradite. Perché placano la sete di giustizia della collettività. Perché
tranquillizzano l’uomo della strada e lo sportivo comune. Lasciandogli credere
che tutto è sotto controllo, che il sistema funziona, sempre e comunque, che
tutto va come deve andare. L’esclusione della Nocerina dal campionato di
competenza, quello di terza serie, a lavori ancora in corso, era oggettivamente
scontata. E scontate erano pure le sanzioni ufficialmente inflitte in mattinata
dalla Commissione Disciplinare a dirigenti, tecnico e giocatori (alcuni) del club. Quello stesso club che,
peraltro, se l’è anche chiamata: fluttuando tra reticenze, piccole e grandi
bugie, ripensamenti e cattiva gestione della situazione. Prima, durante e dopo il
derby della vergogna. Finendo per pagare a caro prezzo. Perché l’Italia
del pallone è un po’ stanca. Di tutto. Perché un esempio serve ad educare.
Perché qualcosa avrebbe dovuto pur accadere. Perché, in fondo, questa è soltanto serie
C. Perché quello di Lega Pro è, di fatto, un angolo già mortificato
dall’imminente risistemazione dei campionati. E perché, magari, Nocera
Inferiore è periferia della Repubblica, lontana dai circuiti del potere, dal
cuore della finanza e dalla fede delle maggioranze. Una Nocerina in meno non
abbaglia, non stride e, soprattutto, non guasta mai. Semmai, addolcisce l’amaro. Del resto,
chissà, altrove una situazione del genre non sarebbe neppure accaduta. Perché il tessuto sociale, anche nel
calcio, può incidere. E perché, in categorie più elevate, la soglia di
attenzione dwgli addetti ai lavori è più marcata e anche gli indirizzi di autocomportamento sono mediamente più saldi. Fosse
capitato tutto più in alto, però, il problema sarebbe diventato più scottante,
più scomodo, più pesante. E il verdetto, probabilmente, meno previsto, meno
atteso.
mercoledì 29 gennaio 2014
martedì 21 gennaio 2014
Thohir, lezione numero uno
Rafforzarsi o ripianare. Guardare avanti, oppure tutelarsi. Evolversi o galleggiare. Spegnere la sete d’ambizione, oppure scontrarsi con la storia. L’Internazionale di Milano naviga tra il recente passato, troppo ingombrante, e il prossimo futuro, che già assomiglia a certi angoli bui frequentati per decenni, prima di tornare a vincere tutto. Moratti non c’è più. Non in prima linea, almeno. Ma c’è Thohir, indonesiano senza lo scrupolo della passione, presidente un po’ distante – anche geograficamente – che sgorga da una cultura diversa e da differenti esperienze di vita e d’affari. Vendere, prima di acquistare: è questa la strategia. Mai accaduto, a certi livelli. Dove, chi arriva, deve ritagliarsi il consenso. Vendere. O, al massimo, scambiare. Provando a guadagnarci qualcosa, magari. Il mercato di gennaio, intanto, è pronto a soccorrere il progetto. Emerge, così, l’idea: caricarsi l’ingaggio di Vučinić, che la Juve di Conte non apprezza più come un tempo, liberandosi contemporaneamente di Guarín: uno che, però, all’Inter di Mazzarri continuerebbe a servire. Soprattutto di questi tempi: in cui i risultati sgorgano faticosamente. Solo che, sotto la lente di una prima e sommaria analisi popolare, lo scambio appare tecnicamente sconveniente. Al di là del conguaglio da stabilire. La gente e l’opinione pubblica, cioè, non perdono troppo tempo a valutare la situazione e, immediatamente, bocciano il disegno. Che, in realtà, è assai più che un disegno: Vučinić ha già sostenuto le visite mediche a Milano. E altrettanto, a Torino, ha fatto Guarín. Come dire: è tutto già deciso, stabilito. Ma l’anima interista sobbolle, istigata da certi precedenti: le manovre congiunte con la Juventus, troppe volte, si sono rivelate deludenti, anacronistiche. Una fregatura, ecco. Ci sono ancora sacche di buona memoria, in questo Paese. E la tifoseria riconosce facilmente l’ingenua società di un tempo. La sollevazione mediatica, tuttavia, funziona. E, si dice, Moratti ci mette qualcosa di suo: una telefonata. Thohir, allora, decodifica il disagio e intuisce il pericolo di scollamento dell’ambiente. Planando sulla questione con pessima tempistica, ma con definitiva autorità. Stop, trattativa saltata. Rimane tutto com’è. Branca, se resterà, si regoli diversamente. L’opera di risanamento, chissà, proseguirà ugualmente. O anche no. Però senza il sapore acre dell'adiratissima Juve nel palato. Rafforzarsi o galleggiare: il problema, per il momento, si agita ancora. Ma le prime indicazioni gestionali arrivano dalla base, piaccia o no. Thohir, probabilmente, non se lo sarebbe mai aspettato: ma il calcio delle passioni e del campanile è anche questo. Lezione numero uno.
lunedì 13 gennaio 2014
La poltrona di cartone del vicereame
Galliani, Barbara Berlusconi: due poltrone per un solo
vicereame, quello del Milan. E due
personalità unite da un fragile ed inconfessabile segreto: per l’effetto del
quale l’anziano plenipotenziario, quanto prima, toglierà il disturbo. Al di là
delle dichiarazioni di comodo. Perché in certi ambienti è così: tutto va bene,
sino a nuovo ordine. E, dietro, l’ombra incombente del padrone Silvio. Che ha
già deciso di rinnovare: proprio tutto. E, contemporaneamente, di salvaguardare
l’armonia di famiglia: e ci mancherebbe, del resto. Quel padrone che, da tempo,
non ama Allegri. E che, nel tempo, più volte ha provato a defenestrare. Senza
riuscirci. Incocciando proprio nella dura corteccia di Galliani. Questa volta,
però, è davvero finita. E non solo per il tecnico, travolto da un ragazzo che
si chiama Domenico Berardi e che arriva da Cariati. Travolto dal Sassuolo. E travolto, innanzi tutto, dal suo stesso
destino, già tracciato e persino pubblicizzato con anticipo larghissimo: sei
mesi. E’ davvero finita, nel frattempo, anche per il Richelieu più longevo
d’Italia. Al quale era stata recentemente affidata la titolarità dell’area
tecnica. Costata anche abbastanza: cioè, la cessione dell’area amministrativa e
organizzativa. Barbara, però, scalpitava e scalpita ancora. Consapevole di
possedere spalle larghe e, soprattutto, coperte. Sufficienti, alla prima
occasione utile, per intervenire duramente. La figura magra di Sassuolo è
inaccettabile, detta. E, immediatamente dopo, cala il sipario. Due poltrone
sono troppe, in un vicereame. Solo una regge. L’altra è puro cartone. E le
bugie, nel calcio prima che altrove, affiorano presto.
sabato 4 gennaio 2014
Il tradimento e la scelta
Vladimir Petković è un signore di garbo infinito e di
atteggiamenti glaciali. Arrivato alla Lazio, all’inizio della scorsa stagione,
piacque sùbito. Alla gente che ama il pallone, alla tifoseria che affolla la
curva nord dell’Olimpico e, infine, a Claudio Lotito, il suo datore di lavoro.
Bella presenza, buone maniere, un buon sistema di gioco e, proprio in coda al
campionato, una gran bella soddisfazione: la Coppa Italia. Non un
trofeo qualsiasi, per chi vince saltuariamente: soprattutto, se la finale è
anche un derby. Il derby di Roma. Ma le situazioni si evolvono. E alcune si
involvono. La Lazio
perde qualcosa. Non si rafforza. Lo spogliatoio si inquieta. Probabilmente,
Petković perde pure un po’ di peso specifico. I risultati corrono dietro agli
avversari, troppo spesso. La squadra, cioè, non sa ripetersi.
Contemporaneamente, il tecnico bosniaco comincia a piacere alla Federazione
svizzera, che cerca un nuovo driver,
da giugno in poi. Il flirt sfocia nell’accordo, assolutamente
legittimo: proprio a giugno scade il contratto con la Lazio, è tutto in regola.
L’allenatore stenta a pubblicizzare la novità. Infine, la Federazione Svizzera
rompe il silenzio e diffonde un comunicato ufficiale. Petković, a fine stagione,
saluta l’Italia e passa il confine. Lotito, in realtà, la prende male. Molto
male. Anche se, di fatto, cerca da tempo di liberarsi del tecnico e di affidare
la Lazio a
qualcun altro. Magari, risparmiando su un ingaggio. Niente, Petković non si
dimette. Non si muove. Sino a giugno. A meno che non arrivi l’esonero. Ed è
proprio questo l’ultimo atto: il presidente si inventa anche il licenziamento
per giusta causa. Per tradimento. E se si trattasse, invece, di semplice
legittimazione della titolarità di una scelta? Lasciare un incarico per
assumerne un altro, altrove: talvolta, succede. Anche se i padroni della nostra
quotidianità, da un po’, si sono abituati troppo bene.
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