mercoledì 30 gennaio 2013

Spesa ingente, ritorno sicuro

Basterebbe riesumare quella frase un po' pesante e sferzante, neanche troppo datata, sganciata più per deviare la pressione mediatica che per sbarrare la strada ad un acquisto importante, per affondare la lama. «Balotelli è una mela marcia», raccontò Berlusconi. Ma la retorica facile non ci attira e non ci garba. Troppo scontato, meglio di no. Eppure il bad boy che ha inquietato l'ambiente del Manchester City, dopo aver irrigidito l'altra parte di Milano, arriva al Milan, quasi ai titoli di coda della seconda sessione di mercato. Diventando il top player che Allegri avrebbe voluto: molto più di Kaká. E proiettando idealmente il club verso una dimensione più consueta: quella delle realtà che possono e vogliono spendere. E, quindi, competere. Operazione rischiosa, è vero: perché il ragazzo continua a indispettire, dentro e fuori dal campo. Perché la sua redenzione è rinviata, mese dopo mese, da ormai qualche anno. Perché un big, da solo, non basta a quadrare i conti, se il collettivo non decolla mai per davvero. E a recuperare lo spessore perduto. Ma, lo sappiamo, il pallone - oggi - è uno dei problemi dell'ex presidente del Consiglio, ma non il problema. Che, piuttosto, si chiama campagna elettorale. Alla quale, tuttavia, il calcio e il Milan possono portare giovamento, Cioè, pubblicità. Investire (venti milioni) significa, dicono i più informati, guadagnare quattrocentomila voti: nel bacino d'utenza rossonero, immaginiamo. Altro che programmi, battaglia sull'Imu e guerra dichiarata alla magistratura. Spesa ingente, ritorno sicuro: ragionassimo per logica, non ci crederemmo. Ma così è, se vi pare. Quanto basta per avanzare sospetti sulla nostra ingenuità. Quanto basta per depotenziare la già flebile considerazione verso questo Paese e la folla impersonale che lo abita. Quanto basta per capire quale sia, per i professionisti della politica, la considerazione nei confronti della tifoseria. E quindi della gente. Che, prima o poi, magari senza troppa convinzione o con poco piacere, vota.

martedì 29 gennaio 2013

Roma, due anni di lavoro. Persi

Permetteteci di ritornare su Zeman. Che si apprezza per quello che è, per quello che dice e per come lo dice. Oppure non si tessera proprio: bypassando complicazioni eventuali e future. La storia del boemo è lunga. E pure densa di avvenimenti. Solitamente rumorosi. Il suo calcio è, molto spesso, il più apprezzato. Ma anche il più avversato: e ognuno è libero di sposarne i dogmi o di delegittimarlo. Comunque, chi lo ingaggia, in estate, è perfettamente consapevole delle caratteristiche del suo modo di intendere il pallone e delle abitudini del personaggio. Non è tecnico da partenze spinte: anche perchè non è facile deglutirne gli schemi e le modalità di allenamento. Soprattutto se il materiale che i club volutamente e puntualmente gli consegnano va opportunamente valutato, modellato e formato. In cambio dei risultati, chiede tempo. E, se una società è affamata di certezze, è preferibile che si rivolga ad altri: investendo, magari, su uomini già pronti per vincere. Non è, oltre tutto, uomo di facile gestione: e certi attriti vanno messi in conto. Ovvio: la Roma, nello specifico, possiede una propria storia, si nutre di ambizioni che non può ignorare e, soprattutto, è quotata in borsa. Senza contare che anche le migliori intenzioni possono franare sulla crudezza di determinate parole: che Zeman, nel rispetto di se stesso, non ha evitato neppure nella capitale. Ma ci pare di capire che il problema non nasca essenzialmente dalla complicazione di un rapporto tra l'allenatore e la società. Se è vero, come è vero, che il destino del boemo si compierà alla fine di questa settimana. E che dipenderà dal prossimo risultato. Quel risultato che, in fondo, è l'unico vero strumento di giudizio, per chi siede in panchina. Del resto, vale per chiunque: non ci meravigliamo. Eppure, l'eventuale defenestramento di Zeman non ci convincerebbe ugualmente. Innanzi tutto perché la lievitazione di un gruppo fondamentalmente giovane e che punta a solidificarsi gradualmente (erano queste le condizioni o le previsioni) passa attraverso molti momenti di alta e pure di bassa pressione. La classifica, giusto, non è ancora brillantissima e mancano punti: ma ci sembra che le priorità, agli albori della stagione, fossero altre. Una per tutte: il lavoro di prospettiva. Senza contare che, tra un'ingenuità e una cointroindicazione, qualcosa stia lentamente affiorando. Come conferma il rendimento medio di certi elementi su cui puntare in futuro. Cacciare ora Zeman sarebbe sostanzialmente ingiusto. E sarebbe inopportuno liquidarlo anche prima del prossimo campionato: due anni è l'arco di tempo minimo, per un certo tipo di operazione tecnica. Concordata dietro le scrivanie, è meglio ricordarlo. Sollevarlo dall'incarico, infine, per la Roma significherebbe aver tradito un progetto in cui la dirigenza sembrava crederci davvero. E aver disperso un anno di lavoro. Anzi, due.  

domenica 27 gennaio 2013

Il calcio delle ambiguità

Al di là delle rivalità e delle fede di ciascuno: la Juve che si lamenta di una conduzione arbitrale (quella della squadra diretta dal torrese Guida, nello specifico) è una piega del gioco. E, teoricamente, ci sta: i soprusi infastiscono tutti, anche i più e meglio protetti. Anche perché, nel circo del pallone di questo Paese, ogni sollevazione ufficiale è una sorta di foglio di garanzia. E aiuta a calamitarsi addosso futuri favori: chi dice il contrario mente. Sapendo di mentire. Ingiusto, sì: ma normale. Che la Juve, poi, si infuri come è accaduto ieri, immediatamente dopo il novantesimo del match in cui il Genoa le ha strappato un punto sull'erba di casa, questo fa un certo effetto. Sinceramente. Non osiamo immaginare, peraltro, cosa dovrebbero pensare gli avversari diretti (il Napoli ingiustamente punito in Supercoppa, oppure la stessa Inter, così come il Milan, che ancora fatica a digerire il caso-Muntari) e, soprattutto, i club politicamente più deboli, vessati da decenni interi. Ma si vive dei fatti del presente e il passato è un capitolo chiuso: vero. E anche a Torino avranno pure il diritto di ribellarsi, prima o poi. Non regge, però, l'idea (bianconera) di rinfacciare al mondo le frasi spese dagli antogonisti, in tempi diversi e a situazioni invertite. Perchè le stesse parole (di circostanza e di convenienza) nascono ovunque: anche e soprattutto in riva al Po. Basterebbe ricordarsene, quando serve. Su una cosa, però, il direttore generale della Juventus, Marotta, non sbaglia: per un match del genere, la designazione di Guida, un arbitro che arriva da Torre Annunziata, praticamente alle porte di Napoli, cioè la città che spinge la concorrente più pericolosa, è infelice. E, aggiungiamo noi, inopportuna. Perché il sospetto non aiuta a migliorarci. Perché esistono delle logiche, che il settore arbitrale finge di dimenticare. Perché il nostro calcio non è ancora maturo per abituarsi a se stesso. Perché il pallone, in Italia, non ha bisogno di altre iniezioni di diffidenza. Nè di equivoci e di ambiguità: non ce lo possiamo permettere. 

lunedì 21 gennaio 2013

Il campionato delle domande consuete

Dai canali generalisti ai salotti televisivi più sperduti, la domanda più banale e scontata è anche la più spesa. Da almeno due mesi, nessuno - ma proprio nessuno - resiste alla tentazione di chiedere e chiedersi (più per abitudine o per pigrizia professionale, forse, che per esigenza tangibile) chi può fregiarsi del diritto di considerarsi lo sparring partner ufficiale della Juventus nella lotta ad un titolo che, piuttosto, sembra già assegnato. E non da ora. Il giro di opinioni non si è mai fermato. E non si è arreso neppure davanti alla prima considerazione di fondo sgorgata dall'ultima domenica di ordinario pallone: la flessione dettata dal pesante richiamo atletico impartito da Conte nel corso della pausa di metà stagione, cioè, sembra quasi superata. Soliti quesiti, dunque: e, quindi, solite risposte. Che, probabilmente, non tengono in adeguata evidenza due o tre verità. La Juve, ecco la prima, è l'unica squadra veramente solida del campionato, dal rendimento costante, ovvero credibile. Il plotone delle inseguitrici (si fa per dire) è, di contro, quello che è: altamente influenzabile dalle situazioni del campo, troppo folto per evitare conflitti di interesse (tutti tolgono punti a tutti, settimana dopo settimana) e incapace di mantenere il passo del leader. Anche quando il leader rallenta. Infine, certi episodi (questa volta, il raddoppio della Lazio, a Palermo, viene ingiustamente cancellato dal direttore di gara) finiscono per trattenere sempre chi insegue: ma questo fa parte della nostra storia. Il verdetto finale, sostanzialmente giusto, è già scolpito. E i tentativi, anche i più lodevoli, di mantenere vivo l'interesse di appassionati e addetti ai lavori non reggono più. Bisogna farsene una ragione, punto. Intanto, la capacità (e la voglia) di frugare nelle pieghe del torneo sembra esaurita. Gli interrogativi più abusati, quelli più popolari e istintivi, sopravvivono solo per inerzia. Ma le domande, quelle vere, sono finite. Oppure la stampa sportiva italiana, irrimediabilmente appiattitasi nel tempo, non possiede più fantasia.

lunedì 14 gennaio 2013

Amauri e quel gol dimenticato

Amauri Carvalho de Oliveira è un brasiliano senza troppa storia, nel pallone del suo Paese. Un sudamericano snobbato dalla sua Seleção e, anche per questo, italiano per scelta. Quando esigenza e riconoscenza verso la terra che l'ha adottato hanno finito per confluire in un iter burocratico tracciato nel laboratorio degli oriundi. Certo, da allora qualcosa è cambiato: le porte della Nazionale, quella della patria nuova, non si sono più aperte. Colpa di un infortunio, anche abbastanza grave. E di una conseguente involuzione tecnica che ha tranciato il rapporto tra il ragazzo di Carapicuiba e la Juve, smistando il destino dell'artigliere tra Firenze e Parma, dove attualmente gioca. La tifoseria bianconera, infatti, non lo ricorda volentieri. Come i fischi sonori e la disapprovazione popolare emersa al Tardini, ieri, nel corso del match in cui hanno incrociato i tacchetti la formazione emiliana e quella di Conte, dimostra. Roba da curva, nessuna sorpresa. Certe dinamiche del tifo sono ormai ampiamente tollerate e deglutite. Eppure, proprio la Juve, ad Amauri deve non poco. Quel gol del brasiliano, all'epoca vestito con la maglia della Fiorentina, che stese il Milan a San Siro, meno di un anno fa, significò praticamente scudetto. La gente che tifa, però, non se n'è ricordata. Oppure, ha preferito dimenticarlo. Scegliendo la via dell'ostilità diretta, senza filtri. Del resto, questa è un'Italia che dimentica in fretta. E che non si piega troppo volentieri al sentimento di riconoscenza. Così è: e non moriremo per questo. E poi, è chiaro, vanno bene la contestazione civile e il gioco legittimo delle casacche: il pallone, da sempre, è passione da guelfi e ghibellini. Ma la gratitudine, in certi casi, sarebbe un ingombrante dovere.

mercoledì 9 gennaio 2013

Di Canio, ambizioni da cullare

Carismatici, riveriti e ben pagati. Spesso, vincenti. E, talvolta, anche per questo, antipatici. Se non, addirittura, spocchiosi. O esageratamente esigenti: quasi da rischiare il processo per autoritarismo. Perchè, anche se tecnicotattica, sempre dittatura si chiama. Molto spesso, intolleranti: al giudizio, alla critica. Quella che arriva dall'esterno. E pure dall'interno. Quasi sempre infastiditi dal pubblico confronto che prova a scavare e spigolare, saltando gli ostacoli delle analisi preconfezionate. O delle parole comodamente messe in croce per acquietare la curiosità dei meno esigenti. O di quelli che si accontentano del già sentito. Spregiudicati, quando serve: ai bordi del campo e davanti ai microfoni. Comunque, gelosi della propria autonomia. Del proprio recinto. E, ovviamente, del proprio stipendio. Che non è un dettaglio marginale. E che però finisce per ricompensare stress, amarezze, insuccessi, polemiche, pressioni, contestazioni. E, in certi casi, rivolte. Quello stipendio che rifonda dal perenne pericolo di congiure. Ed esoneri. Che, certe volte, para persino le decisioni più drastiche: i costi aggiuntivi sono sempre un deterrente, per i club. Brillanti, ombrosi, istrionici: ogni caudillo possiede il suo marchio di fabbrica. E non fa niente per nasconderlo. Gli allenatori preferiti del gran circo del pallone, però, si espongono sempre. Più dei colleghi meno quotati o meno fortunati: del resto, il potere contrattuale di ciascuno è saldo. Nessuno, tuttavia, deve penare troppo per ottenere vantaggi accessori: prima per tutte, la base qualitativa dell'organico in cui operare. Basta chiedere: qualcosa arriverà, prima o poi. Anche in tempi angiusti come questo. Ma Paolo Di Canio non è ancora un top coach: allena in Inghileterra, a Swindon, ma in quella che è considerata la nostra terza serie. Insegue un obiettivo, che è poi anche il sogno di conquistare la promozione. Solo che la sua società ha limitato i budget di spesa. L'allenatore, comunque, non si è affatto rassegnato. E ha già informato club, tifoseria e stampa che, se necessario, provvederà a sovvenzionare personalmente la prosecuzione progetto. Attingendo dal proprio conto in banca: che, presumibilmente, non è lo stesso di Mourinho. O di Capello. O di Ancelotti e Ferguson. L'ambizione, evidentemente, porta anche a questo. Oppure, l'entusiamo più sano è davvero ancora intatto. L'iniziativa di Di Canio, altrimenti, può essere decodificata come un investimento sul futuro: il proprio. Di certo, però, il tecnico romano si è guadagnato colonne sui giornali, cioè pubblicità. Considerazione tra la sua gente, ovviamente. E, magari, il rinnovo automatico dell'ingaggio. Gente così fa bene ai club: e, tra le scrivanie dello Swindon Town, il particolare non sarà passato inosservato. 

lunedì 7 gennaio 2013

Messi, noblesse oblige

Il Pallone d'Oro a Messi completa la sua quarta edizione. Tutto previsto. Tutto scontato. E tutto giusto, considerando lo spessore del giocatore, la prolificità dell'attaccante, la serietà dell'uomo, la continuità del numero uno e la tecnica indiscutibile di un argentino piccolo e sgusciante. Corsa a tre, avevano detto: tra lui, il portoghese Cristiano Ronaldo e uno spagnolo, Iniesta. In realtà, però, chiunque attendeva l'univo verdetto possibile. L'unico verdetto pronosticato e pronosticabile. Che aggiunge lustro a lustro: nessuno, prima di lui, aveva vinto il premio per quattro volte. Consecutive, oltre tutto. E nessuno, peraltro, potrà ribellarsi: il successo è blindato dalla realtà del campo. Nessuno vorrà discuterne, per una questione di ragionevolezza. Però, è difficile capire le coordinate che spingono la piccola folla che vota, orientando il giudizio finale. Perchè non sempre il più bello e il più bravo, oppure il più efficace dentro il rettangolo di gioco, ha potuto fregiarsi del titolo. Pensiamo a Maldini, buggerato almeno un paio di volte, anni fa. Oppure al tedesco Sammer, il preferito nel 1996, dopo aver dribblato qualsiasi proiezione. Tante volte, piuttosto, la votazione ha premiato un vincitore: di un campionato (meglio se del Mondo o, in mancanza, d'Europa), di una coppa di prestigio. Perchè solo chi vince può continuare a farlo impunemente: lo stesso Sammer è un esempio. Come Cannavaro, del resto. Non quest'anno, però: in cui Messi ha fallito, con il Barcellona, il traguardo dentro e fuori i confini nazionali. Al contrario di Iniesta, campione del mondo con la Spagna. O dello stesso Cristiano Ronaldo: che, almeno, si è guadagnato la Liga con il Madrid. Ma ogni votazione, si sa, possiede i suoi segreti. E l'illogicità delle sue logiche. Che, spesso, aggrediscono il buon senso. O, se non altro, la coerenza. Senza che ce ne voglia Lionel Messi: che resta il più forte dei cinque continenti. Ne siamo consapevoli: tutti.