mercoledì 31 ottobre 2012

Allegri, un uomo solo

Adriano Galliani, come chi è abituato a vincere, non sopporta serenamente l'ordinaria diffficoltà, o l'ineluttabilità degli eventi. Il Milan che zoppica gli fa male, troppo male. E la rabbia monta: anche se l'austerità è un obbligo partito dall'alto. I cui spettri erano e restano nel bagaglio dei preventivi. Certo, la gente di Allegri è meno tonica del previsto. E neppure il più pessimista avrebbe previsto quello che sottolinea la realtà. Già, Allegri. Uno che, in via Turati, non gode più del vento di simpatia che lo raccolse prima dal Cagliari e poi lo accompagnò sino al titolo tricolore. E che, proprio per questo, giorno dopo giorno, perde appeal e, soprattutto, credibilità. Agli occhi della squadra che dirige, prima ancora che a quelli della tifoseria e dell'opinione pubblica. Le stoccate maligne di Gattuso, certi sottintesi di Nesta e il litigio con Inzaghi, poi, non lo hanno assistito. Indebolendone la panchina e lascinadolo più solo. Ecco, Allegri è un uomo solo. E, forse, neanche più al comando della barca. Galliani l'ha affrontato duramente, negli spogliatoi di Palermo: parole dello stesso amministratore delegato. E, se abbiamo capito bene, tra il primo e il secondo tempo gli ha intimato (o ordinato) tre avvicendamenti. Che, dicono le cronache, potrebbero aver favorito il pareggio di un match ormai quasi perso. Se così è andata, è un fatto grave. Non tanto per le modalità con cui si è sviluppata la questione (Allegri, del resto, è adulto e vaccinato: e, se ha ratificato le sostituzioni di Galliani, avrà constatato la convenienza dell'operazione, oppure definitivamente realizzato l'attuale spessore della propria opinione al di dentro del club e dell'organico). Ma, soprattutto, per la pubblicizzazione dell'evento. Che sarebbe dovuto rimanere dov'è nato: tra le docce e la lavagna. Ma, conoscendo Galliani, sempre abbastanza attento alle pieghe mediatiche e ai risvolti della comunicazione (il marchio è di fabbrica), sembra tutto costruito a tavolino. In due parole, la rivelazione del dissenso e dei correttivi pretesi ed ottenuti, appare voluta. Non sappiamo a quale scopo. O, forse, sì: per esempio, quello di spingere il tecnico alle dimissioni. Dubitiamo, però, che avvenga. Qui da noi non si dimette nessuno: anche per molto peggio. Dentro e fuori il pallone. E, allora, a Galliani non rimarrà che una mossa: cacciare Allegri. Perchè di un allenatore sventrato dei suoi poteri e delle sua potestà sulle questioni tecniche il Milan non saprebbe che farsene.

martedì 30 ottobre 2012

Dalla moviola ai fiordi

La tecnologia bussa. Anche sui campi di gioco più celebrati. Che, alla fine, sono i più caldi, i più complicati. Bollenti di polemiche aspre e sospetti male occultati. Quelli della serie A di casa nostra, per esempio: ma solo quelli. Perchè, ormai, a queste latitudini la seconda, la terza o la quarta serie fanno solo numero e contano poco. Oppure, perchè i rimedi presuppongono un costo. Che non tutti possono accollarsi. I pasionari della moviola a bordo campo, però, riconquistano metri. Anzi, chilometri. E tornano a ruggire. Dopo essere stati stoppati, ma solo per un po', dalla nuova tendenza della televisione generalista: quella di arginare gli attriti e di calmare le folle. Fortificando, nel contempo, gli interessi dei più potenti. Cioè, dei più agevolati. Che è poi il concetto di fondo che regola la quotidianità di questo Paese. Sottrarre all'analisi l'approfondimento delle immagini del crimine, del resto, ha funzionato un anno o poco più. Ma, del resto, alla sportellate dei cattivi arbitraggi è arduo resistere. La tecnologia, allora, spinge. Anche se Blatter, Platini e il potentato tutto si opporrà strenuamente, fieramente: lo sappiamo già. Mentre altrove (in Norvegia, dove sono sempre più avanti) si pensa persino di rivedere il regolamento di base. La proposta della federcalcio locale, rilanciata dall'Ansa, è addirittura originale. Per non dire ingenua. In occasione di gare non proprio equilibrate, è questa l'idea di fondo, magari quando il divario stabilito sull'erba consiste in almeno quattro gol, la formazione che sta perdendo può opportunamente rafforzarsi: con un dodicesimo giocatore. Perchè, fanno sapere dalla Scandinavia, non è divertente imporsi (o perdere) diciassette a zero. Vero. Come è vero pure che, in determinati casi, sarebbe meglio cambiare mestiere o occupazione. E provare a fare altro. Il pallone è un divertimento, una passione, una professione. Non un obbligo.

lunedì 29 ottobre 2012

La domenica del villaggio

L'ultima domenica di ottobre è un giorno di cose già viste, di disattenzioni arbitrali fatali, di parole piccate (della parte lesa) e di sterili accartocciamenti verbali (della parte favorita). Dove i più deboli s'irritano e i più potenti godono. Niente di nuovo, perciò. E niente di straordinario. Il Catania segna, ma non vale. La Juve fa altrettanto, poggiandosi sull'imperfezione della giocata: ma va bene lo stesso. E il risultato, al di là delle frasi di convenienza del digì bianconero Marotta (che, una volta, la pensava diversamente, su certi argomenti), si deforma sotto il peso degli episodi. Non sarà, tuttavia, su queste colonne che infieriremo sulla classe arbitrale. Primo, perchè il gioco non ci piace. Secondo, perchè crediamo ancora all'onestà intellettuale della categoria, malgrado certi segnali orribili del passato recente. Senza retorica. Pur ammettendo l'infinita consistenza del concetto di sudditanza: che, in Italia, è anche e soprattutto pscologica. Nè indugeremo sulla cronaca spicciola del match. Non ci facciamo sfuggire, però, certi movimenti attorno alla panchina juventina (legittimi, da una certa angolazione: ma antipatici) che avrebbero potuto condizionare il giudizio finale del direttore di gara. Che, poi, in un calcio malato come il nostro, finiscono per iniettare sospetti. Esattamente quello di cui non abbiamo necessità. Alla fine, però, gli errori fanno parte del gioco e - come si dice in casi come questo - vanno accettati: non c'è alternativa. Il problema, ovviamente, è spiegarlo al Catania, al Napoli, alle altre (effettive o presunte) concorrenti dirette della Juve. Agli scommettitori che avranno puntato sulla formazione di Maran. E magari anche a chi, in settimana, avrà dovuto assorbire e decodificare l'ultimo intervento dialettico del presidente bianconero Agnelli, ultimamente preoccupato a caldeggiare la riforma del pallone, delle sue regole e delle sue abitudini (a proposito: se lo ricordi nel momento di eleggere i suoi prossimi rappresentanti). Quello stesso calcio che sta puntualmente contestando dal lunedì al sabato. Prendendosi un giorno di riposo, la domenica. Quando, come per magia, tutto scorre come deve.

martedì 23 ottobre 2012

Storie di cattivo giornalismo

Il calcio c'entra, ma è solo il pretesto. Oppure, semplicemente, è la chiave d'accesso ad una storia di pubblico squallore. Questa, ecco, è una storia di giornalismo, prima di tutto. Di cattivo giornalismo. Il servizio delle sede Rai piemontese prima del match più atteso dall'Italia del pallone (l'ormai viceleader Napoli che va a visitare la capolista Juve) è aria fritta spacciata per nota di colore, tifo spicciolo e dozzinale sdoganato per folklore, cattivo gusto utilizzato per riempire il palinsesto. Ma, anche e soprattutto, una sequenza di luoghi comuni un po' volgari, un capolavoro di contenuti di bassa macellazione (il tifo, si sa, non bada a spese). Oppurtunamente selezionati - è questo il primo errore- e incartati da un giornalista (omettiamo il nome: non è questo il punto e questo non è neppure un processo) che, invece di censurare, ci mette del proprio per peggiorare il prodotto. Che, una volta deflagrato il caso, prova a rifugiarsi nel salvacondotto della fretta, senza convincere nessuno. E vantando persino la paternità di un'ironia che vorrebbe distruggere ogni istinto di razzismo. Inutile scendere nei particolari: di questa storia oscena si parla ormai ovunque, anche tra gli scanni del Parlamento. E molti avranno osservato le immagini e ascoltato tutto: bastano e avanzano. Restano, però, certe frasi e certi atteggiamenti: che andrebbero purgati, molto prima della messa in onda. Se non da chi firma il servizio, almeno da chi dovrebbe sovrintendere. Pazienza. E resta, nell'aria, quella strana atmosfera di pressapochismo, di supponenza, di aridità. Che, per chi fa questo mestiere, è la colpa più grave. Intanto, sta per intervenire l'Ordine dei Giornalisti. Ed è già intervenuta la direzione generale della Rai, che ha doverosamente sanzionato il giornalista. Il quale, magari, ha goduto sin qui di un curriculum assolutamente cristallino. Ma quello che, adesso, ci attendiamo dal servizio pubblico è altro: più qualità all'interno dell'azienda, cioè più attenzione verso la meritocrazia. Quella che la Rai non sempre ha perseguito, incoraggiato e protetto. Chiediamo troppo?

domenica 21 ottobre 2012

Mandorlini e la simpatia dei livornesi

Un Paese che non coltiva la cultura non possiede neppure memoria. E un Paese in cui difetta la memoria non rende un servizio alla propria cultura. Se, poi, la cultura becera di certe frange di tifo offende gratuitamente la memoria di chi non è più tra noi, si apre (legittimamente) un caso nazionale. Che deborda dal vaso sporco del pallone per coinvolgere la quotidianità imperfetta della nostra società in crisi: di valori, d'identità e di argomenti. Non ci appassiona, tuttavia, tutta la retorica che si sta annidando e si anniderà attorno alle ingiurie tributate a Morisini da una fetta (sostanziosa, pare) di ultras veronesi nel corso della trasferta livornese, consumatasi ieri. Quella stessa fetta di ultras che, in passato, ha colorato con altre pessime iniziative altre pagine di cronaca: senza essere mai davvero arginata. Non per mancanza di misure (quelle ci sono, ma non valgono per tutti o, nel migliore dei casi, funzionano per i casi meno clamorosi, dunque meglio gestibili), ma per mancanza di volontà politicosportiva. Conforta un po', piuttosto, sapere che il club scaligero e la città, prontamente, hanno stabilito le distanze di sicurezza da certi personaggi. Molto meno, infine, ci garbano le sempre più frequenti (e irritanti) provocazioni di Andrea Mandorlini, un addetto ai lavori dal quale è lecito attendersi comportamenti e parole più sobrie. Che non istigheranno i più maleducati (quelli non hanno bisogno di alcun input, agiscono automaticamente), ma che contribuiscono a intorbidire il sottobosco del nostro calcio. Le frizioni tra il tecnico e le tifoserie avversarie - più o meno simpatiche, non importa - cominciano numericamente a crescere e non ci sembrano più frutto della semplice coincidenza. Ed è, forse, il caso di cominciare ad approfondire la questione.  

lunedì 8 ottobre 2012

Baldini e la stampa

Quella Roma che non carbura fa arrabbiare la tifoseria, inorgoglisce gli avversari storici di mastro Zeman e, magari, non perturba affatto il boemo, protetto dal castello invincibile delle sue idee. Sembra addirittura che, tra la fase difensiva applicata male e gli incidenti di percorso che tutti sembrano aver collocato nel preventivo e di cui, però, nessuno si ricorda quando è il momento giusto, alberghino pure i primi attriti interpersonali. O, magari, semplicemente i primi disguidi di natura tattica. Tra il tecnico più integralista del pallone di casa nostra e la figura più rappresentativa, dopo Totti, della squadra. Oppure tra lo stesso coach e Osvaldo, artigliere in difficoltà. Due nazionali, peraltro: non gente qualunque. Voci, insinuazioni: tradotte sulla carta di tutti i quotidiani o svelate tranquillamente nei salotti televisivi nazionali da chi fa il proprio lavoro. Gente che non sta al suo posto, i giornalisti: il direttore generale Baldini, nella settimana che segue la difatta di Torino e precede la sfida con l'Atalanta (vinta), se ne lamenta. Solo che poi, nell'anticipo domenicale che accoglie il ritorno al successo della Roma, sia Osvaldo che De Rossi partono dalla panchina. Sorridendo, certo: ma pur sempre dalla panchina. Rafforzando la tempra di Zeman, che evidentemente non si lascia intimidire dai nomi e dai cognomi. E avvalorando le tesi infrasettimanali della stampa visionaria. Che, spesso, indovina il cuore il problema.

domenica 7 ottobre 2012

Torino, silenzio e aplomb

Fosse accaduto ad altri quello che ha stoppato il Torino di fronte al Cagliari nell'ultimo turno del campionato più difficile e anche più ipocrita del mondo (rigore controverso, regolarmente fischiato contro e, più tardi, pareggio di Bianchi invalidato dal direttore di gara), ne avrebbe parlato l'Italia intera. Dal Genoa al Palermo, dal Parma al Siena o all'Atalanta, chiunque avrebbe montato una polemica dura, forse anche legittima e forse anche antipatica. Fosse accaduto, per esempio, a qualche big come l'Inter o il Milan, sarebbe divampato un fuoco irrazionale. E, alla Juventus, un bordellaccio infame. Con attacchi studiati al sistema: lo stesso che, per anni, ne ha coperto le crepe o le difficoltà trovate sull'erba del campo. Invece, il Torino replica con stile. Senza aggrapparsi alle attenuanti. Glissando, quasi. Accettando le regole, con sobrietà addirittura anacronistica. Bene. Anche se nessuno, da qui in poi, si sognerà di parlare di stile-Torino: perchè non è glamour. Benissimo. Perchè è una pagina di normalità nel libro anomalo che racconta il calcio (e non solo il pallone) di questo Paese. E perchè l'aplomb granata comincia, senza che nessuno se ne sia accorto, a fare tendenza. Del resto, occorre ammetterlo, da quando c'è Cairo alla presidenza, il club non si scompone mai, di fronte a niente: nè agli errori frequenti dei direttori di gara, nè alle penalizzazioni guadagnate senza subire un processo (ma, semplicemente, patteggiando). Mentre molti altri, minacciati da chissà quali ipotetiche sanzioni, se la sfangano più o meno regolarmente. Da anni. Ottimo: il Torino è quasi un'isola felice. Ne prendiamo atto. Non senza tributargli, però, il consiglio politicamente scorretto di cambiare strategia: perchè il silenzio, in Italia, è sinonimo di resa. E, comunque, non aiuta. Urlare, invece, rende sempre qualcosa, prima o poi.

venerdì 5 ottobre 2012

Ultima sentenza all'italiana

Antonio Conte, la squalifica, la giustizia sportiva. L'ultimo atto è il Tnas, che erroneamente viene tradotto come la cassazione del pallone. E che, invece, è un vero e proprio ufficio di conciliazione: non prima del verdetto, ma dopo. Sentenza prevista, sentenza definitiva: al tecnico juventino vengono abbonati sei dei dieci mesi di stop. Praticamente, più di metà della pena. E, così come in passato, anche questa volta i tribunali calcistici ci lasciano sconcertati, insoddisfatti. Per quello che è stato, oppure per quello che è diventato. Perchè, se Conte non ha commesso il fatto (mancata denuncia di combine in corso) ed è innocente, oppure non esistono le prove che confermino il reato, il coach ha pagato e continuerà a pagare senza meritarlo. E non va bene. Beneficiando, oltre tutto, di uno sconto non per aver convinto l'accusa, ma per aver mediato con i suoi legali. Del resto, se oggi le prove sono insufficienti o inesistenti, lo erano anche ieri, all'epoca dei primi due gradi di giudizio. Se, invece, le argomentazioni di Palazzi bastavano e basterebbero ancora ad inchiodarlo, sorge spontaneamente il sospetto che il Tnas e, dunque, la giustizia sportiva siano capitolate rovinosamente sotto la spinta delle roventi pressioni della società bianconera, che non ha lesinato mezzi e voci (anche e soprattutto mediatiche) per capovolgere la situazione. E anche questo non va bene.