lunedì 17 dicembre 2012

Crederci o non crederci, ecco il problema

Serse Cosmi è un motivatore sanguigno, un viscerale. Un uomo da battaglia, un grintoso. Sempre disposto a metterci tratti somatici e firma. Come qualunque allenatore, possiede un nemico certo: i risultati. Quelli che a Siena, ultimamente, sono mancati. Lasciando la Robur in fondo a quella classifica difficile da scalare, dopo quei sei punti di penalità da smaltire, inflitti ancora prima che la stagione ufficiale cominciasse. Proprio l'handicap di partenza, però, spiega quanto la decisione della sua società di esonerarlo, in coda al derby di Firenze, sia sostanzialmente ingiusta. Perchè questo torneo, a tutt'oggi, è tutt'altro che negativo: come asseriscono i diciassette punti conquistati sin qui sul campo. Più di quelli collezionati da tante altre concorrenti alla salvezza. Il pallone non sa aspettare, lo sappiamo. E scorre, tradizionalmente, troppo veloce. E, forse, le apparenze possono ingannare chi governa il traffico e deve decidere. Di certo, ora il club è immerso nella paura di non farcela. O troppo impegnato a parare le insidie di una certa involuzione palesata della squadra. In luogo di Cosmi, intanto, è arrivato Iachini, mediano in campo (non molti anni addietro) e capitano pragmatico in panchina. Quello che può definirsi un clone del suo predecessore, sotto parecchi aspetti. Uno che ci crede, come si dice. Così come, nella salvezza, credeva anche il tecnico umbro. Al contrario, magari, di altri: tutti sistemati dietro a una scrivania.

mercoledì 28 novembre 2012

Il confine sottile tra etica e regolamento

Prendetela come una provocazione. E, magari, lo è. Oppure, come una tesi ardita. Oppure, ancora, come un semplice argomento sdoganato per discuterne. Perchè qualcosa non ci quadra: nella forma. Malgrado, sulla sostanza, ci sia poco - molto poco -  da eccepire. Dunque: il fair play è indice di civiltà. Anche, soprattutto nel pallone. E i suoi principi vanno rispettati. Non l'ha fatto, ad esempio, Luíz Adriano, un brasiliano di Porto Alegre che ha trovato ingaggio in Ucraina, allo Shaktar di Donetsk, formazione attualmente quotatissima in Champion's League. Nell'ultimo match, di fronte ai danesi del Nordsjaellend, ha segnato: sfruttando, però, un pallone appena restituito dalla sua squadra all'avversario. E, indubbiamente, anche la propria velocità d'esecuzione, nettamente superiore a quella degli scandinavi, certi di non dover temere nulla. Una palla a due comandata dal direttore di gara per riavviare il gioco dopo un infortunio non può e non deve trasformarsi in un vantaggio per chi ha il dovere di disobbligarsi: punto. Non lo scrive il regolamento, ma la prassi è antica e consolidata. Il gaúcho, invece, ha finto di dimenticarsene: collezionando una cattiva figura, i fischi e gli insulti della gente sugli spalti, una decina di cazziatoni e il pubblico ludibrio. Obbligando, oltre tutto, lo Shaktar a rimediare sul campo, immediatamente (i danesi sono facilmente tornati in vantaggio, siglando pochi minuti dopo la rete del due a uno). E, sin qui, ci siamo. Abbiamo dei dubbi, piuttosto, su quello che accadrà più avanti. Perchè l'incrimazione formale della Fifa, cioè il governo principe del pallone, sfocia nella squalifica di un turno al giocatore. Domanda: ma tutto questo, al di là dei valori traditi, è legittimo? Ovvero: è legittimo che un giocatore venga punito per un comportamento profondamente antipatico, censurabilissimo, ma nel pieno rispetto del regolamento calcistico? Perchè, ricordiamolo pure, una palla scodellata tra due avversari, norma alla mano, è libera di essere conquistata da chiunque. Per chiarire: moralmente parlando, la sanzione è meritata. Anzi, può persino apparire debole. Ma il calcio giocato non prevede una norma non scritta: e la Fifa, prima di tutti, ha l'obbligo di tutelare il regolamento del campo. Sappiamo benissimo che Luíz Adriano ha sbroccato e deve pagare: ma, quanto meno, questo è un dettaglio che andrebbe quanto meno dibattuto più profondamente di quanto sia stato fatto e, magari, chiarito. Una volta per tutte. Peccato, però, che nessuno si sia posto il quesito. O che si sia interrogato.

martedì 27 novembre 2012

E se Cellino fosse stanco?

L'ultima di Massimo Cellino: un ragazzino destinato dalla sua società a sbrigare il proprio compito di raccattapalle durante l'ultimo Cagliari-Napoli, riceve un attestato di simpatia da Marek Hamsik, che poi è l'uomo decisivo del match (suo il gol del successo della gente di Mazzarri). E, per questo, viene redarguito e punito, ovvero allontanato. Dove, per allontanamento, si intende la perdita del posto nell'organico del settore giovanile sardo. Va bene che il regolamento interno non prevede che i raccattapalle chiedano (o, eventualmente, ottengano senza volerlo) qualcosa da chi scende in campo: ma, sinceramente, questo ci sembra molto più di abbastanza. Diciamo pure troppo. E va bene che, probabilmente, il presidente è uomo di scaramanzia ultradichiarata. I riflettori su di sè, piuttosto, sembrano attrarlo, disorientarlo. La storiaccia del mancato svolgimento di Cagliari-Roma, per un capriccio di uno dei plenipotenziari più agitati del pallone italico, è ancora fresca. E freschissime, anzi, sono le dichiarazioni che si sono accodate al secondo grado di giudizio, ovviamente sfavorevole: parole oggettivamente senza fondamento. E in sovrannumero. Oppure, Cellino è stanco: del calcio, delle sue dinamiche, dei suoi sottobosco, delle sue pieghe. Meglio ancora, usurato da tanti anni di militanza (assai positiva dall'angolazione dei risultati ottenuta). Forse, con il tempo, ha esasperato - magari inconsapevolmente - la propria intolleranza: prima verso le regole non scritte (ricordiamo, ad esempio, ancora il caso-Marchetti, che sapeva tanto di mobbing) e, più tardi, verso i regolamenti. Comunque, verso certe situazioni e, in generale, verso chi vive ed opera attorno a questo mondo strano della palla che rotola. E, magari, necessita di fermarsi: per un po' o per sempre. Perchè riposare, ad un certo punto, è un diritto. Tanto, a Cagliari lo ricorderanno con stima, per sempre. I riflettori, così, potranno puntare su altre latitudini: sull'isola basta il sole del Mediterraneo.

mercoledì 21 novembre 2012

Eroi di serie A. E di serie B

Faticavamo a crederci, ma è vero. La notizia è vera, assolutamente vera. A Torino, alla Continassa, proprio davanti allo stadio recentemente costruito dalla Juventus, con grande intuizione manageriale e con l'appoggio incondizionato dell'amministrazione comunale, che non aveva lesinato un appoggio concreto (cioè, economico: terreno concesso a basso, bassissimo costo) e che continua a sostenere fattivamente il progetto (l'area della struttura si potenzierà ancora, sempre a basso costo), scorreva corso Grande Torino. Un'arteria pubblica ma, al contempo, un omaggio alla storia (del calcio e della città), ma anche a uno dei simboli dell'italico pallone. Ad una leggenda di cui quest'Italietta un po' meschina di questa quotidianità può vantarsi. Bene, oggi quella strada cambia nome. Si chiama (è ufficiale, dalle quattordici e trenta) corso Gaetano Scirea, indimenticato libero del club bianconero e della Nazionale. Che avrebbe meritato e merita un ricordo, un tributo: nessuno si oppone. Dispiace, però, quella sostituzione. Perchè di sostituzione, alla fine, si tratta. Molto più dolorosa di quelle che si abbattono a match in corso, magari a dodici o a ventisei minuti dalla fine del match. E che tanto infastidiscono e scandalizzano chi, in campo, viene surrogato e, quindi, chi si ritiene sfregiato nell'immaginario collettivo. Quella sostituzione amareggia: anche se a breve, al Grande Torino, sarà intotala una piazza, ma altrove. Non solo la tifoseria del Toro, probabilmente. E non solo la città di Torino: che resta la casa del club granata, il più seguito all'interno dei confini del capoluogo piemontese. Vista così, brutalmente, è come se esistessero morti di serie A e di serie B. Miti di prima e di seconda divisione. Ricordi di primo e di secondo piano. Eroi di prima e di seconda mano. Sacrificati (i secondi) sull'altare del peso specifico, dello spessore politico, della potenza econimica e della forza mediatica di questa o di quella società. Di questa o di quella tifoseria. Di questa o di quella fede calcistica. Di questa o di quella storia. Ed è come se si fosse abbattuta su questo Paese senza più identità una nuova sconfitta. La sconfitta di tutti: nonostante un trasloco non significhi cancellazione del ricordo.

martedì 20 novembre 2012

L'orgoglio ferito che cancella il rigore

Ci sono direttori di gara che non deviano in corsa. Ed altri più disposti a rimettere in gioco se stessi, se serve: talvolta succede. Anche se in campo l'ammissione di colpa, per tanti, è ancora una macchia, una iattura. Molte volte, è questione anche di buon senso: chi ce l'ha, se lo tiene. E, chi non ce l'ha, non può acquistarlo. In altre circostanze, la cooperazione soccorre: e ci mancherebbe, dal momento che gli assistenti si moltiplicano, anno dopo anno. Almeno nel calcio dei più ricchi. Altre volte, la sinergia naufraga nel personalismo: ed è il momento peggiore. Comunque vada, però, sarà un insuccesso: perchè un'ammonizione, un penalty, un cartellino rosso o un semplice calcio di punizione accontenta uno e scontenta l'avversario. Ogni match, poi, possiede una sua storia. E, dentro ogni storia, ci sono atteggiamenti e approcci diversi. La storia di Matera-Battipagliese (serie D, girone H, uno a zero) è inedita, a queste latitudini. Se la memoria non ci inganna, è chiaro. O, meglio, è inedita la storia di un episodio che marchia la partita. Scorre il minuto ventitre, è il primo tempo. Il lucano Ciano interviene sul campano Trimarco: per il leccese Calogiuri è fallo da rigore. Dubbio, per chi rivede il filmato dell'azione. E anche per la maggior parte di chi è allo stadio. L'attaccante battipagliese, tuttavia, si lascia (ingenuamente?) scappare un commento che tradisce la sua simulazione. Un assistente di linea capta e, immediatamente, riferisce. Risultato: soluzione dagli undici metri commutata in fallo contro. E, ovviamente, anche sanzione personale per Trimarco. Giustizia ristabilita, nella sostanza: senza ricorrere ad una moviola che non c'è e che non è ammessa. E senza il minimo sospetto di doversi pentire. Pochi secondi per ricredersi: ma quanto basta per guadagnarsi l'elogio. Non tutti, dicevamo, sanno cambiare in corsa. Anche se, nel caso specifico, una malignità ci spinge a sorridere: ma non vi diciamo quale. Pensiero finale: magari, la tecnologia in campo non sfonda, dilatando il valore delle disattenzioni di chi deve giudicare. Ma, almeno, l'orgoglio ferito aiuta gli arbitri a rivedere le cattive decisioni. E a sconfessare i provvedimenti che, altrimenti, sarebbero tranquillamente destinati a sporcare e spaccare la partita.   

lunedì 19 novembre 2012

Il campionato delle storie già viste

La fede calcistica e il gioco delle barricate non c'entrano. Quelle, magari, sono la cornice. Il problema, invece, è concettuale. Ed è un problema, dicevamo recentemente, di credibilità, innanzi tutto. Che qualsiasi ragionamento, anche il più logico ed equilibrato, non può minimizzare. Che la realtà del pallone (la velocità d'esecuzione di qualsiasi giocata, la fallibilità del giudizio umano, l'ostracismo alla tecnologia) non può cancellare. Che il buon senso (chiunque agisce credendo di operare al meglio: questo è un postulato, altrimenti i giochi si chiudono e non se ne parla più) non riesce a devitalizzare. E che neppure gli interventi stizziti ed istituzionali di Nicchi o di Braschi, ma anche di chi li ha preceduti o li surrogherà, hanno potuto, possono e potranno spazzare. Gli errori (piccoli, minimi, grandi o esagerati) si rincorrono e la classifica della serie A continua a risentirne. Come ieri, come l'altro ieri. E, di conseguenza, si rincorrono pure le polemiche. Solo che, adesso, le incertezze della categoria arbitrale tornano a premiare sempre gli stessi. Sembra di vedere un film già visto. E a metà della gente d'Italia questo non piace. L'ultimo caso sconvolge il finale di Inter-Cagliari, esattamente sette giorni dopo certi dubbi (fondati) sorti durante Atalanta-Inter e non troppo tempo dopo i fatti di Juve-Inter: l'intervento in area su Ranocchia, ad una manciata di secondi dalla fine del match, è chiaramente falloso, ma Giacomelli non vede. Non vedono, sembra, neppure gli assistenti e neanche il quarto, il quinto e il sesto uomo. Occorre andare dagli altri per ottenere la conferma: ma chi siede in gradinata o in tribuna, si sa, non decide niente. La questione, a questo punto, comincia ad indispettire qualcuno: ed è normale che sia così. Perchè la lotta per il titolo, ormai, è fortemente segnata da determinati episodi: comunque vada a finire. Un'altra volta. Detto fuori dai denti, confermiamo tutto: non crediamo a certi giochi sotterranei. Ma il punto è un altro: ci crede davvero anche il tifoso comune, che poi è l'unico e vero cliente del calcio, cioè quello che va allo stadio, che si abbona alla pay tv, che legge i quotidiani e segue le trasmissioni sponsorizzate dalla domenica al sabato successivo? Onestamente, ne dubitiamo. Ecco perchè non è un problema di fede, ma di credibilità. Che, alla fine, sorregge un progetto, la quotidianità, un Paese. E, quindi, anche il pallone, ormai solcato da una cultura complottista. Che certe sentenze recenti rafforzano, invece di affievolire. Ecco, quello che la gente comincia tristemente a pensare è che il destino del campionato sia già compiuto, molto prima della metà del suo cammino, al di là dello spessore e della qualità delle concorrenti. E al di là delle parole vergate di garbo di Moratti. Cioè, già disegnato e deciso a tavolino. Nicchi, o chi per lui, si riapproprierà dei microfoni di una tv generalista che, di questi tempi, insabbia praticamente tutto, liberando il proprio malumore: è il suo mestiere, è giusto che lo faccia. Senza, però, minacciare o intimidire la stampa libera, come si è permesso di fare ultimamente. Ma quanti saranno ancora disposti a credergli?

lunedì 12 novembre 2012

Immobile, non c'è inganno

Il Genoa parte bene, benissimo. E finisce male, sommerso dal ritorno del Napoli. Voto: 5. Il Napoli paga certi affanni recenti e, appena si sveglia Cavani, raggiunge e sorpassa la formazione di Delneri, reinventando un campionato che, lentamente, sembrava spegnersi. Voto: 6,5. Più alta, piuttosto, è la quotazione del giudizio su Ciro Immobile, napoletano che quest'anno prova a segnare in Liguria. Privo, peraltro, della soddisfazione personale da un po' e, dunque, discretamente motivato: e non importa se, di fronte, c'è la squadra della sua città. Merita otto, il ragazzo. E non solo per la marcatura che piove a metà del primo tempo. Il meglio, piuttosto, arriva davanti microfoni, dopo il novantesimo: «È sempre bello segnare, non ci riuscivo da tre giornate, avevo voglia di farlo. Perché non avrei dovuto gioire?». Almeno per una volta, cioè, qualcuno si carica della responsabilità di scalciare l'ipocrisia a cui anche il nostro calcio si sta abituando. E anche quel falso perbenismo che si arrampica quando la questione si fa frivola (perchè, altrimenti, si abbattono legnate: e gli sconti, nel momento in cui il gioco si fa duro, non esistono). Immobile fa quel che deve e si comporta com'è normale che sia: esultando. Per obbedire ad un concetto sacro, dove competizione e professionismo si fondono. Non c'è inganno: e Immobile va riverito per questo. La festa dopo il gol è spontanea e sincera: e non è neppure il frutto emotivo e indesiderato di un riflesso condizionato mal gestito. E sì, perchè pure le emozioni, a volte, si frenano. Non per convinzione, ma per convenienza.  

martedì 6 novembre 2012

Adriano e il talento sprecato

Dalla favela al grattacielo. Andata e ritorno. Adriano Leite Ribeiro spreca anche le ultime briciole di credibilità sopravvissute sulla pedana del Barra Show, uno dei locali del culto carioca, e nella selva di parole dettate per ufficializzare il disimpegno dal Flamengo, il club che aveva provato a recuperarlo un'altra volta. E anche dal pallone. Almeno per un po'. Sì, perchè il ragazzo è certo del suo futuro, ma poi non troppo. Ora, dice, preferisce divertirsi: legittimamente. Avendo, peraltro, già accumulato quello che serve per galleggiare più che dignitosamente anche nel Brasile che continua a crescere. E frequentare la realtà da cui provene, cioè uno dei grandi alberghi di fango e zinco che popolano le colline di Rio. Ad ogni modo, il sacrificio e l'allenamento sono mentalmente lontani. Quindi, basta con l'erba del campo, con l'incombenza degli orari e l'odore dell'olio canforato. Ma solo per qualche mese, assicura. Il contratto con il club della Gávea è stracciato, risolto. Così come gli altri che lo hanno preceduto. Quelli con la Roma e con il Corinthians, ad esempio. Però, ritenterà a garantirsene un altro, giura: nel duemilatredici. La verità, intanto, è che la sua potenza e il suo fiuto realizzativo sono nell'album dei ricordi. Che, con il pallone, Adriano ha ormai molto poco da spartire, dal punto di vista affettivo. Che, senza voler apparire bacchettoni, il suo nuovo stile di vita non puà essere considerato al servizio dello sport. E che un talento puro è andato sprecato, in pochissimi anni. E molto prima del tempo. Contento lui, tuttavia, contenti tutti. O quasi. Ma l'ultima dichirazione (il rientro sul palcoscenico, l'anno prossimo) è solo l'ultimo inganno. A se stesso, soprattutto. Sempre che, su Adriano, esista ancora qualcuno disposto a crederci: tra un giorno, tra un mese o tra sei.

domenica 4 novembre 2012

L'Inter e la credibilità del pallone

L'Inter finalmente plasmato da Stramaccioni va ringraziato. Perchè la suspence che deve alimentare la disputa del campionato è salva. Perchè la battaglia per il titolo resta ufficialmente aperta, cioè viva. Perchè, se la Juve non fugge verso l'infinito, l'interesse popolare è garantito per un altro po' e, dunque, ci guadagna l'intera comunità calcistica d'Italia. Perchè la competizione serrata, da sempre, fa crescere il movimento del pallone. O, almeno, non appiattisce e non impoverisce lo spessore del torneo più blasonato di casa nostra. Ma l'Inter che insegue, agguanta e supera i bianconeri in casa loro e che, soprattutto, reagisce sul campo e con fatti concreti alle ingiustizie (c'è un altro episodio che premia ingiustamente la Juve, appena sette giorni dopo i fatti di Catania) va, forse, addirittura venerato. Perchè la sua rimonta annacqua altre polemiche feroci e galoppanti, ormai sull'uscio. Perchè protegge (meglio di qualsiasi difesa d'ufficio) la categoria arbitrale da un nuovo temporale, ormai difficile da controllare. Perchè libera da ogni imbarazzo la stessa Juventus, tradizionalmente costretta a convivere con certi pregiudizi guadagnati in passato. Alleggerendola, oltre tutto, della responsabilità di un'imbattibilità da preservare. E perchè, piaccia oppure no, puntella un po' la credibilità del pallone, a queste latitudini. Quella stessa credibilità che neppure il designatore si preoccupa di irrobustire. Riservando, per un match ad altissimo rischio, il nome e il cognome di un direttore di gara ormai compromesso - a torto o a ragione, non importa - con la storia. Personaggio serissimo, senza dubbio alcuno: ma anche condannato ad allargare l'alone del sospetto, cioè uno dei caposaldi della Repubblica.

giovedì 1 novembre 2012

Neymar, poi solo sertão

Ci sono le nomination. E riparte la rincorsa, annuale e patinata, al Pallone d'Oro, lotteria senza suspence per un alloro ipervalutato. Che, francamente, non ci solletica granchè. Ovviamente c'è il nome onnipresente dell'argentino Messi, ovviamente anche quello del portoghese Cristiano Ronaldo. E, a rimorchio, un gran numero di spagnoli (Casillas, Iniesta, Xavi, Xabi Alonso, Busquets, Iniesta, Piquet e Sergio Ramos), l'inglese Rooney, il turco di Germania Özil, il francese Benzema, lo svedese Ibrahimovic, l'altro argentino Agüero, gli ivoriani Drogba e Touré, l'olandese Van Persie, il colombiano Falcao, il tedesco Neuer e persino tre italiani (Pirlo, Buffon e Balotelli). Da più lontano, infine, spunta la classe di Neymar, orgoglio del pallone brasiliano. E unico rappresentante del Paese sudamericano: che, da sempre, rifornisce i sogni di mezzo mondo. Non è un dato da poco, pensandoci bene. Perchè, evidentemente, il calcio bailado di un tempo non riesce più a spremere qualità individuali di primissima qualità. La recessione, visto che di recessione si tratta, galoppa da qualche anno, ormai. Come il rendimento insicuro della Seleção sembra confermare. Oltre tutto, a due anni di distanza dai Mondiali che proprio il Brasile ospiterà. Tra non poche polemiche: calcistiche e politiche. Intanto, Neymar è, di fatto, l'unico verdeoro veramente spendibile, oggi, a livello internazionale. Attorno, solo un sertão di mediocrità. Conseguenza, viene da pensare, della veloce europeizzazione del calcio brasiliano. Che, negli ultimi anni, ha riempito gli organici del suo massimo campionato di troppi volantes, quelli che noi chiamiamo mediani: cioè buoni corridori e ottimi incontristi, ma assai poco ispirati. Obbligando l'intero movimento, perciò, a sintonizzarsi sulle frequenze della convenienza spicciola. Un'operazione culturale, prima ancora che un'innovazione tattica: praticamente coeva del percorso inverso reinaugurato dai club europei. Come dire: il mondo cambia in fretta. Anche per questo, probabilmente, siamo sempre più confusi. In attesa di ritrovarci calcisticamente più depressi.  

mercoledì 31 ottobre 2012

Allegri, un uomo solo

Adriano Galliani, come chi è abituato a vincere, non sopporta serenamente l'ordinaria diffficoltà, o l'ineluttabilità degli eventi. Il Milan che zoppica gli fa male, troppo male. E la rabbia monta: anche se l'austerità è un obbligo partito dall'alto. I cui spettri erano e restano nel bagaglio dei preventivi. Certo, la gente di Allegri è meno tonica del previsto. E neppure il più pessimista avrebbe previsto quello che sottolinea la realtà. Già, Allegri. Uno che, in via Turati, non gode più del vento di simpatia che lo raccolse prima dal Cagliari e poi lo accompagnò sino al titolo tricolore. E che, proprio per questo, giorno dopo giorno, perde appeal e, soprattutto, credibilità. Agli occhi della squadra che dirige, prima ancora che a quelli della tifoseria e dell'opinione pubblica. Le stoccate maligne di Gattuso, certi sottintesi di Nesta e il litigio con Inzaghi, poi, non lo hanno assistito. Indebolendone la panchina e lascinadolo più solo. Ecco, Allegri è un uomo solo. E, forse, neanche più al comando della barca. Galliani l'ha affrontato duramente, negli spogliatoi di Palermo: parole dello stesso amministratore delegato. E, se abbiamo capito bene, tra il primo e il secondo tempo gli ha intimato (o ordinato) tre avvicendamenti. Che, dicono le cronache, potrebbero aver favorito il pareggio di un match ormai quasi perso. Se così è andata, è un fatto grave. Non tanto per le modalità con cui si è sviluppata la questione (Allegri, del resto, è adulto e vaccinato: e, se ha ratificato le sostituzioni di Galliani, avrà constatato la convenienza dell'operazione, oppure definitivamente realizzato l'attuale spessore della propria opinione al di dentro del club e dell'organico). Ma, soprattutto, per la pubblicizzazione dell'evento. Che sarebbe dovuto rimanere dov'è nato: tra le docce e la lavagna. Ma, conoscendo Galliani, sempre abbastanza attento alle pieghe mediatiche e ai risvolti della comunicazione (il marchio è di fabbrica), sembra tutto costruito a tavolino. In due parole, la rivelazione del dissenso e dei correttivi pretesi ed ottenuti, appare voluta. Non sappiamo a quale scopo. O, forse, sì: per esempio, quello di spingere il tecnico alle dimissioni. Dubitiamo, però, che avvenga. Qui da noi non si dimette nessuno: anche per molto peggio. Dentro e fuori il pallone. E, allora, a Galliani non rimarrà che una mossa: cacciare Allegri. Perchè di un allenatore sventrato dei suoi poteri e delle sua potestà sulle questioni tecniche il Milan non saprebbe che farsene.

martedì 30 ottobre 2012

Dalla moviola ai fiordi

La tecnologia bussa. Anche sui campi di gioco più celebrati. Che, alla fine, sono i più caldi, i più complicati. Bollenti di polemiche aspre e sospetti male occultati. Quelli della serie A di casa nostra, per esempio: ma solo quelli. Perchè, ormai, a queste latitudini la seconda, la terza o la quarta serie fanno solo numero e contano poco. Oppure, perchè i rimedi presuppongono un costo. Che non tutti possono accollarsi. I pasionari della moviola a bordo campo, però, riconquistano metri. Anzi, chilometri. E tornano a ruggire. Dopo essere stati stoppati, ma solo per un po', dalla nuova tendenza della televisione generalista: quella di arginare gli attriti e di calmare le folle. Fortificando, nel contempo, gli interessi dei più potenti. Cioè, dei più agevolati. Che è poi il concetto di fondo che regola la quotidianità di questo Paese. Sottrarre all'analisi l'approfondimento delle immagini del crimine, del resto, ha funzionato un anno o poco più. Ma, del resto, alla sportellate dei cattivi arbitraggi è arduo resistere. La tecnologia, allora, spinge. Anche se Blatter, Platini e il potentato tutto si opporrà strenuamente, fieramente: lo sappiamo già. Mentre altrove (in Norvegia, dove sono sempre più avanti) si pensa persino di rivedere il regolamento di base. La proposta della federcalcio locale, rilanciata dall'Ansa, è addirittura originale. Per non dire ingenua. In occasione di gare non proprio equilibrate, è questa l'idea di fondo, magari quando il divario stabilito sull'erba consiste in almeno quattro gol, la formazione che sta perdendo può opportunamente rafforzarsi: con un dodicesimo giocatore. Perchè, fanno sapere dalla Scandinavia, non è divertente imporsi (o perdere) diciassette a zero. Vero. Come è vero pure che, in determinati casi, sarebbe meglio cambiare mestiere o occupazione. E provare a fare altro. Il pallone è un divertimento, una passione, una professione. Non un obbligo.

lunedì 29 ottobre 2012

La domenica del villaggio

L'ultima domenica di ottobre è un giorno di cose già viste, di disattenzioni arbitrali fatali, di parole piccate (della parte lesa) e di sterili accartocciamenti verbali (della parte favorita). Dove i più deboli s'irritano e i più potenti godono. Niente di nuovo, perciò. E niente di straordinario. Il Catania segna, ma non vale. La Juve fa altrettanto, poggiandosi sull'imperfezione della giocata: ma va bene lo stesso. E il risultato, al di là delle frasi di convenienza del digì bianconero Marotta (che, una volta, la pensava diversamente, su certi argomenti), si deforma sotto il peso degli episodi. Non sarà, tuttavia, su queste colonne che infieriremo sulla classe arbitrale. Primo, perchè il gioco non ci piace. Secondo, perchè crediamo ancora all'onestà intellettuale della categoria, malgrado certi segnali orribili del passato recente. Senza retorica. Pur ammettendo l'infinita consistenza del concetto di sudditanza: che, in Italia, è anche e soprattutto pscologica. Nè indugeremo sulla cronaca spicciola del match. Non ci facciamo sfuggire, però, certi movimenti attorno alla panchina juventina (legittimi, da una certa angolazione: ma antipatici) che avrebbero potuto condizionare il giudizio finale del direttore di gara. Che, poi, in un calcio malato come il nostro, finiscono per iniettare sospetti. Esattamente quello di cui non abbiamo necessità. Alla fine, però, gli errori fanno parte del gioco e - come si dice in casi come questo - vanno accettati: non c'è alternativa. Il problema, ovviamente, è spiegarlo al Catania, al Napoli, alle altre (effettive o presunte) concorrenti dirette della Juve. Agli scommettitori che avranno puntato sulla formazione di Maran. E magari anche a chi, in settimana, avrà dovuto assorbire e decodificare l'ultimo intervento dialettico del presidente bianconero Agnelli, ultimamente preoccupato a caldeggiare la riforma del pallone, delle sue regole e delle sue abitudini (a proposito: se lo ricordi nel momento di eleggere i suoi prossimi rappresentanti). Quello stesso calcio che sta puntualmente contestando dal lunedì al sabato. Prendendosi un giorno di riposo, la domenica. Quando, come per magia, tutto scorre come deve.

martedì 23 ottobre 2012

Storie di cattivo giornalismo

Il calcio c'entra, ma è solo il pretesto. Oppure, semplicemente, è la chiave d'accesso ad una storia di pubblico squallore. Questa, ecco, è una storia di giornalismo, prima di tutto. Di cattivo giornalismo. Il servizio delle sede Rai piemontese prima del match più atteso dall'Italia del pallone (l'ormai viceleader Napoli che va a visitare la capolista Juve) è aria fritta spacciata per nota di colore, tifo spicciolo e dozzinale sdoganato per folklore, cattivo gusto utilizzato per riempire il palinsesto. Ma, anche e soprattutto, una sequenza di luoghi comuni un po' volgari, un capolavoro di contenuti di bassa macellazione (il tifo, si sa, non bada a spese). Oppurtunamente selezionati - è questo il primo errore- e incartati da un giornalista (omettiamo il nome: non è questo il punto e questo non è neppure un processo) che, invece di censurare, ci mette del proprio per peggiorare il prodotto. Che, una volta deflagrato il caso, prova a rifugiarsi nel salvacondotto della fretta, senza convincere nessuno. E vantando persino la paternità di un'ironia che vorrebbe distruggere ogni istinto di razzismo. Inutile scendere nei particolari: di questa storia oscena si parla ormai ovunque, anche tra gli scanni del Parlamento. E molti avranno osservato le immagini e ascoltato tutto: bastano e avanzano. Restano, però, certe frasi e certi atteggiamenti: che andrebbero purgati, molto prima della messa in onda. Se non da chi firma il servizio, almeno da chi dovrebbe sovrintendere. Pazienza. E resta, nell'aria, quella strana atmosfera di pressapochismo, di supponenza, di aridità. Che, per chi fa questo mestiere, è la colpa più grave. Intanto, sta per intervenire l'Ordine dei Giornalisti. Ed è già intervenuta la direzione generale della Rai, che ha doverosamente sanzionato il giornalista. Il quale, magari, ha goduto sin qui di un curriculum assolutamente cristallino. Ma quello che, adesso, ci attendiamo dal servizio pubblico è altro: più qualità all'interno dell'azienda, cioè più attenzione verso la meritocrazia. Quella che la Rai non sempre ha perseguito, incoraggiato e protetto. Chiediamo troppo?

domenica 21 ottobre 2012

Mandorlini e la simpatia dei livornesi

Un Paese che non coltiva la cultura non possiede neppure memoria. E un Paese in cui difetta la memoria non rende un servizio alla propria cultura. Se, poi, la cultura becera di certe frange di tifo offende gratuitamente la memoria di chi non è più tra noi, si apre (legittimamente) un caso nazionale. Che deborda dal vaso sporco del pallone per coinvolgere la quotidianità imperfetta della nostra società in crisi: di valori, d'identità e di argomenti. Non ci appassiona, tuttavia, tutta la retorica che si sta annidando e si anniderà attorno alle ingiurie tributate a Morisini da una fetta (sostanziosa, pare) di ultras veronesi nel corso della trasferta livornese, consumatasi ieri. Quella stessa fetta di ultras che, in passato, ha colorato con altre pessime iniziative altre pagine di cronaca: senza essere mai davvero arginata. Non per mancanza di misure (quelle ci sono, ma non valgono per tutti o, nel migliore dei casi, funzionano per i casi meno clamorosi, dunque meglio gestibili), ma per mancanza di volontà politicosportiva. Conforta un po', piuttosto, sapere che il club scaligero e la città, prontamente, hanno stabilito le distanze di sicurezza da certi personaggi. Molto meno, infine, ci garbano le sempre più frequenti (e irritanti) provocazioni di Andrea Mandorlini, un addetto ai lavori dal quale è lecito attendersi comportamenti e parole più sobrie. Che non istigheranno i più maleducati (quelli non hanno bisogno di alcun input, agiscono automaticamente), ma che contribuiscono a intorbidire il sottobosco del nostro calcio. Le frizioni tra il tecnico e le tifoserie avversarie - più o meno simpatiche, non importa - cominciano numericamente a crescere e non ci sembrano più frutto della semplice coincidenza. Ed è, forse, il caso di cominciare ad approfondire la questione.  

lunedì 8 ottobre 2012

Baldini e la stampa

Quella Roma che non carbura fa arrabbiare la tifoseria, inorgoglisce gli avversari storici di mastro Zeman e, magari, non perturba affatto il boemo, protetto dal castello invincibile delle sue idee. Sembra addirittura che, tra la fase difensiva applicata male e gli incidenti di percorso che tutti sembrano aver collocato nel preventivo e di cui, però, nessuno si ricorda quando è il momento giusto, alberghino pure i primi attriti interpersonali. O, magari, semplicemente i primi disguidi di natura tattica. Tra il tecnico più integralista del pallone di casa nostra e la figura più rappresentativa, dopo Totti, della squadra. Oppure tra lo stesso coach e Osvaldo, artigliere in difficoltà. Due nazionali, peraltro: non gente qualunque. Voci, insinuazioni: tradotte sulla carta di tutti i quotidiani o svelate tranquillamente nei salotti televisivi nazionali da chi fa il proprio lavoro. Gente che non sta al suo posto, i giornalisti: il direttore generale Baldini, nella settimana che segue la difatta di Torino e precede la sfida con l'Atalanta (vinta), se ne lamenta. Solo che poi, nell'anticipo domenicale che accoglie il ritorno al successo della Roma, sia Osvaldo che De Rossi partono dalla panchina. Sorridendo, certo: ma pur sempre dalla panchina. Rafforzando la tempra di Zeman, che evidentemente non si lascia intimidire dai nomi e dai cognomi. E avvalorando le tesi infrasettimanali della stampa visionaria. Che, spesso, indovina il cuore il problema.

domenica 7 ottobre 2012

Torino, silenzio e aplomb

Fosse accaduto ad altri quello che ha stoppato il Torino di fronte al Cagliari nell'ultimo turno del campionato più difficile e anche più ipocrita del mondo (rigore controverso, regolarmente fischiato contro e, più tardi, pareggio di Bianchi invalidato dal direttore di gara), ne avrebbe parlato l'Italia intera. Dal Genoa al Palermo, dal Parma al Siena o all'Atalanta, chiunque avrebbe montato una polemica dura, forse anche legittima e forse anche antipatica. Fosse accaduto, per esempio, a qualche big come l'Inter o il Milan, sarebbe divampato un fuoco irrazionale. E, alla Juventus, un bordellaccio infame. Con attacchi studiati al sistema: lo stesso che, per anni, ne ha coperto le crepe o le difficoltà trovate sull'erba del campo. Invece, il Torino replica con stile. Senza aggrapparsi alle attenuanti. Glissando, quasi. Accettando le regole, con sobrietà addirittura anacronistica. Bene. Anche se nessuno, da qui in poi, si sognerà di parlare di stile-Torino: perchè non è glamour. Benissimo. Perchè è una pagina di normalità nel libro anomalo che racconta il calcio (e non solo il pallone) di questo Paese. E perchè l'aplomb granata comincia, senza che nessuno se ne sia accorto, a fare tendenza. Del resto, occorre ammetterlo, da quando c'è Cairo alla presidenza, il club non si scompone mai, di fronte a niente: nè agli errori frequenti dei direttori di gara, nè alle penalizzazioni guadagnate senza subire un processo (ma, semplicemente, patteggiando). Mentre molti altri, minacciati da chissà quali ipotetiche sanzioni, se la sfangano più o meno regolarmente. Da anni. Ottimo: il Torino è quasi un'isola felice. Ne prendiamo atto. Non senza tributargli, però, il consiglio politicamente scorretto di cambiare strategia: perchè il silenzio, in Italia, è sinonimo di resa. E, comunque, non aiuta. Urlare, invece, rende sempre qualcosa, prima o poi.

venerdì 5 ottobre 2012

Ultima sentenza all'italiana

Antonio Conte, la squalifica, la giustizia sportiva. L'ultimo atto è il Tnas, che erroneamente viene tradotto come la cassazione del pallone. E che, invece, è un vero e proprio ufficio di conciliazione: non prima del verdetto, ma dopo. Sentenza prevista, sentenza definitiva: al tecnico juventino vengono abbonati sei dei dieci mesi di stop. Praticamente, più di metà della pena. E, così come in passato, anche questa volta i tribunali calcistici ci lasciano sconcertati, insoddisfatti. Per quello che è stato, oppure per quello che è diventato. Perchè, se Conte non ha commesso il fatto (mancata denuncia di combine in corso) ed è innocente, oppure non esistono le prove che confermino il reato, il coach ha pagato e continuerà a pagare senza meritarlo. E non va bene. Beneficiando, oltre tutto, di uno sconto non per aver convinto l'accusa, ma per aver mediato con i suoi legali. Del resto, se oggi le prove sono insufficienti o inesistenti, lo erano anche ieri, all'epoca dei primi due gradi di giudizio. Se, invece, le argomentazioni di Palazzi bastavano e basterebbero ancora ad inchiodarlo, sorge spontaneamente il sospetto che il Tnas e, dunque, la giustizia sportiva siano capitolate rovinosamente sotto la spinta delle roventi pressioni della società bianconera, che non ha lesinato mezzi e voci (anche e soprattutto mediatiche) per capovolgere la situazione. E anche questo non va bene.

domenica 23 settembre 2012

Abituati, rassegnati e soddisfatti

Il Cagliari si fa lo stadio nuovo, tutto suo, ma i lavori vanno completati e la struttura, così com'è, non garantisce l'incolumità pubblica e, dunque, il regolare svolgimento del match (nello specifico, quello con la Roma). A porte aperte, almeno. Senza pubblico, invece, si può. Ma Massimo Cellino, presidente un po' particolare, pensa di eludere il provvedimento invitando i cagliaritani a recarsi ugualmente a Quartu, nella nuova casa del club. La questione diventa un caso: di ordine pubblico. E la prefettura non può esimersi da quello che fa: proibire la partita. Cioè, rinviarla. Sempre che la Lega ratifichi il provvedimento (ma sarà davvero così?). Un provvidemento che, di per sè, sarebbe già un compromesso all'italiana: se una gara salta a causa della responsabilità diretta di una società, non si rinvia. Ma si applica il regolamento: zero a tre a tavolino. Punto. In un Paese normale, ovvio. La Roma, ovviamente, non ci sta. E chiede la vittoria burocratica: legittimamente. Intanto, Zeman e il direttore generale Baldini ammettono: il momento più difficile è stato spiegare cos'è successo agli stranieri della propria squadra, soprattutto a quelli appena arrivati. E sì: perchè gli italiani, in certe situazioni, sono perfettamente calati, anche dal punto di vista psicologico. Ecco, diciamo così, abituati. O rassegnati. E' questa la cosa più triste.

domenica 16 settembre 2012

Sannino e il destino già scritto

«Ho paura di retrocedere». La sensazione, da sola, basta a legittimare un provvedimento drastico come l'esonero di un allenatore. Solo che navighiamo il campionato da meno di un mese e, di solito, la fiducia cieca ama soccorrere persino i più pessimisti. Vero, il pallone non fa sconti a nessuno, da almeno quarant'anni. Soprattutto in Italia. E poi, pensandoci sopra, da un presidente inquieto come Zamparini non potremmo attenderci qualcosa di diverso. Due sconfitte e un pareggio dopo, intanto, coach Sannino chiude amaramente la sua pagina palermitana, aprendo quella di Gasperini, il suo sostituto. Che, più o meno allo stesso punto della stagione, appena l'anno scorso, abbandonò quella dell'Inter. Pensandoci ancora meglio, comunque, ci rendiamo perfettamente conto che tutti, ma proprio tutti, conteggiavamo - giorno dopo giorno - le ore del timoniere. Sin dal momento del suo ingaggio. Pratica sadica: perchè, magari, rende l'atmosfera più bollente e, di conseguenza, la strada più difficile. Perchè prepara psicologicamente all'evento che sta arrivando, attutendo il colpo: mediaticamente, soprattutto. Perchè irretisce o, peggio, inquieta i protagonisti. O, forse, solo perchè sembra chiamare la soluzione finale: quasi fosse una liberazione. Certo, era scritto: a Palerno, da dieci anni, non si salva nessuno. Prima o poi, l'esonero tocca a chiunque. Anche a Sannino: che ci avrà messo del suo (il collettivo zoppica, al di là dei risultati). Ma che, evidentemente, se l'è andata a cercare. Firmando il contratto: che rimane una scelta e non un obbligo. 

sabato 15 settembre 2012

Zeman due, Vialli zero

Vialli, in fondo, ha ragione. Zeman è davvero un paraculo. Un po' snob, chissà. Algido e severo, mai percorso da emozioni apparenti. Ma è un paraculo serio. Uno che analizza e osserva, oltre ad allenare. E che non ama sedersi attorno al tavolo delle opportunità, delle apparenze. Dicendo quello che pensa, sempre. E sottolineando quello che vede. Nello specifico, quello che, un tempo, vedevamo tutti: ad esempio, il lievitamento muscolare di certi protagonisti della Juve atleticamente gestita da Ventrone e dal suo laboratorio rampante. Lievitamento che non significava automaticamente doping (il boemo, certo, insinuò, ma non incriminò nessuno: il pm Guariniello, semmai, indagò). Molti anni dopo, la pizzicata dell'ex punta bianconera cavalca l'onda della ritrovata notorietà del tecnico di Praga, ma vale per quel che vale: quel "paraculo" è una battuta è nulla più. Che ne innesca un'altra, di Zeman, più sottile: «Pensavo che avesse smesso di prendere farmaci». Stupenda. Zeman uno, Vialli zero. Ma Vialli, in realtà, rincara la dose: «Zeman combatte le battaglie che gli convengono». Rimanendo, però, un decennio ai margini del circo, piegato dall'ostacismo di tanti. Particolare ignoto, magari, in Inghilterra: dove l'artigliere di Cremona ha proseguito l'esperienza calcistica. L'autogol, intanto, è pesante e il divario, lentamente, si allarga: Zeman due, Vialli zero. E palla al centro.

giovedì 30 agosto 2012

I litiganti del calcio senza appeal

Berbatov è, evidentemente, un buon mercante. O lo è chi ne cura il profilo commerciale e ll cartellino. La punta, tuttavia, fa quello che ritiene più vantaggioso: e, per questo, lasciando il Manchester United sceglie il Fulham: beffando prima la Fiorentina e poi la Juventus. Tra le quali, nel frattempo, nasce un complicato disguido diplomantico. Che, di fatto, denuda il comportamento spregiudicato della società bianconera: inserita, è bene precisarlo, in una situazione di libero mercato, dove tutto è lecito. In cui, però, esistono regole non scritte di pubblico decoro o, almeno, di buona convivenza o di buon senso. Ognuno, chiaro, si regola come può, trincerandosi tra le mura delle proprie ragioni. Ma, dalla questione che ha animato il calciomercato negli ultimissimi suoi giorni, escono un vincitore (Berbatov, appunto) e tre sconfitti: la Fiorentina, la Juve e il calcio italiano. Sputtanato, ancora una volta, dai suoi giochi misteriosi, dallo scarso appeal di un movimento (e di un Paese) che non concede più troppe garanzie a nessuno e da una mancanza di grandi liquidità che lo annacccquano e lo comprimono nei bassifondi della classifica delle preferenze.   

mercoledì 29 agosto 2012

La dignità di chiamarsi fuori, se serve

Uno a uno, come all'andata. E poi i supplementari. E i calci di rigore, che dicono male. L'Udinese è fuori dalla Champion's, ancora prima di cominciarla. Passa il Braga, scoprendo l'idiosincrasia dei friulani a navigare nella competizione. Mastro Francesco Guidolin ci resta molto male, assumendosi  responsabilità che sono tutte sue. O, forse, no. Però il tecnico ci mette, per usare una fotografia usurata, la faccia. Il proprio nome. Un'altra volta. Rimettendosi in gioco: minacciando (a se stesso, più che alla proprietà, pronta a confortarlo e sostenerlo) un periodo di meditazione. Che, tradotto, potrebbe sembrare parente assai prossimo di un autocongelamento, quindi di dimissioni. Più o meno revocabili, come prassi impone. Non è scena da teatro, però: il personaggio, sotto questo angolo di osservazione, è cristallino. O, se non vi piace il termine, credibile. Parla la sua storia di tecnico un po' nordico: negli atteggiamenti, prima che nella carta d'identità. E il suo modo di vivere il calcio, senza barare: neppure sui sentimenti. A costo di rinunciare all'ingaggio, se necessario (ipotesi che, peraltro, non si concretizzerà). Ma arroccandosi sulla dignità personale. Chi vuole, può prendere appunti. E imparare qualcosa. Anche al di fuori del pallone.   

domenica 26 agosto 2012

Il complotto, le amnesie, i potenti

E poi dicono che il vento cambia. Che s'invertono le tendenze. Sarà. Il pallone del Paese più strano del mondo, però, non cambia mai. La Juve che denuncia ingiustizie affronta quella che, puntualmente, beneficia di inesattezze arbitrali. Pubblicizzando le prime e dimenticando il resto: con nonchalance. E anche arroganza. Riappropriandosi del trend di sempre, vagamente accantonato per alcuni mesi: quella della B. Certo, la faccenda della squalifica di Conte non convince del tutto, oggettivamente. E, probabilmente, il tecnico non sbaglia ad attorcigliarsi sulla propria stizza. Detto questo, va riconosciuto che il primo atto della stagione, la Supercoppa made in China contro il Napoli, l'ha omaggiata oltre ogni merito. Ed anche il campionato appena cominciato ci riserva il primo caso (contro il Parma, la palla di Pirlo che non entra diventa gol). Eppure, la società si affretta a dimenticare certi dettagli troppo spesso. Esasperando, talvolta, chi pensa il contrario e decide di ribellarsi. Ma è così che va. Non ascoltate, allora, chi suggerisce correttezza, sempre. Non serve. Tanto, vince chi urla, pretendendo. Inventando crediti, inventando fantasmi. O denunciando un complotto. Che, storicamente, piega i più deboli. Mai i potenti.