giovedì 1 novembre 2012

Neymar, poi solo sertão

Ci sono le nomination. E riparte la rincorsa, annuale e patinata, al Pallone d'Oro, lotteria senza suspence per un alloro ipervalutato. Che, francamente, non ci solletica granchè. Ovviamente c'è il nome onnipresente dell'argentino Messi, ovviamente anche quello del portoghese Cristiano Ronaldo. E, a rimorchio, un gran numero di spagnoli (Casillas, Iniesta, Xavi, Xabi Alonso, Busquets, Iniesta, Piquet e Sergio Ramos), l'inglese Rooney, il turco di Germania Özil, il francese Benzema, lo svedese Ibrahimovic, l'altro argentino Agüero, gli ivoriani Drogba e Touré, l'olandese Van Persie, il colombiano Falcao, il tedesco Neuer e persino tre italiani (Pirlo, Buffon e Balotelli). Da più lontano, infine, spunta la classe di Neymar, orgoglio del pallone brasiliano. E unico rappresentante del Paese sudamericano: che, da sempre, rifornisce i sogni di mezzo mondo. Non è un dato da poco, pensandoci bene. Perchè, evidentemente, il calcio bailado di un tempo non riesce più a spremere qualità individuali di primissima qualità. La recessione, visto che di recessione si tratta, galoppa da qualche anno, ormai. Come il rendimento insicuro della Seleção sembra confermare. Oltre tutto, a due anni di distanza dai Mondiali che proprio il Brasile ospiterà. Tra non poche polemiche: calcistiche e politiche. Intanto, Neymar è, di fatto, l'unico verdeoro veramente spendibile, oggi, a livello internazionale. Attorno, solo un sertão di mediocrità. Conseguenza, viene da pensare, della veloce europeizzazione del calcio brasiliano. Che, negli ultimi anni, ha riempito gli organici del suo massimo campionato di troppi volantes, quelli che noi chiamiamo mediani: cioè buoni corridori e ottimi incontristi, ma assai poco ispirati. Obbligando l'intero movimento, perciò, a sintonizzarsi sulle frequenze della convenienza spicciola. Un'operazione culturale, prima ancora che un'innovazione tattica: praticamente coeva del percorso inverso reinaugurato dai club europei. Come dire: il mondo cambia in fretta. Anche per questo, probabilmente, siamo sempre più confusi. In attesa di ritrovarci calcisticamente più depressi.