lunedì 19 novembre 2012

Il campionato delle storie già viste

La fede calcistica e il gioco delle barricate non c'entrano. Quelle, magari, sono la cornice. Il problema, invece, è concettuale. Ed è un problema, dicevamo recentemente, di credibilità, innanzi tutto. Che qualsiasi ragionamento, anche il più logico ed equilibrato, non può minimizzare. Che la realtà del pallone (la velocità d'esecuzione di qualsiasi giocata, la fallibilità del giudizio umano, l'ostracismo alla tecnologia) non può cancellare. Che il buon senso (chiunque agisce credendo di operare al meglio: questo è un postulato, altrimenti i giochi si chiudono e non se ne parla più) non riesce a devitalizzare. E che neppure gli interventi stizziti ed istituzionali di Nicchi o di Braschi, ma anche di chi li ha preceduti o li surrogherà, hanno potuto, possono e potranno spazzare. Gli errori (piccoli, minimi, grandi o esagerati) si rincorrono e la classifica della serie A continua a risentirne. Come ieri, come l'altro ieri. E, di conseguenza, si rincorrono pure le polemiche. Solo che, adesso, le incertezze della categoria arbitrale tornano a premiare sempre gli stessi. Sembra di vedere un film già visto. E a metà della gente d'Italia questo non piace. L'ultimo caso sconvolge il finale di Inter-Cagliari, esattamente sette giorni dopo certi dubbi (fondati) sorti durante Atalanta-Inter e non troppo tempo dopo i fatti di Juve-Inter: l'intervento in area su Ranocchia, ad una manciata di secondi dalla fine del match, è chiaramente falloso, ma Giacomelli non vede. Non vedono, sembra, neppure gli assistenti e neanche il quarto, il quinto e il sesto uomo. Occorre andare dagli altri per ottenere la conferma: ma chi siede in gradinata o in tribuna, si sa, non decide niente. La questione, a questo punto, comincia ad indispettire qualcuno: ed è normale che sia così. Perchè la lotta per il titolo, ormai, è fortemente segnata da determinati episodi: comunque vada a finire. Un'altra volta. Detto fuori dai denti, confermiamo tutto: non crediamo a certi giochi sotterranei. Ma il punto è un altro: ci crede davvero anche il tifoso comune, che poi è l'unico e vero cliente del calcio, cioè quello che va allo stadio, che si abbona alla pay tv, che legge i quotidiani e segue le trasmissioni sponsorizzate dalla domenica al sabato successivo? Onestamente, ne dubitiamo. Ecco perchè non è un problema di fede, ma di credibilità. Che, alla fine, sorregge un progetto, la quotidianità, un Paese. E, quindi, anche il pallone, ormai solcato da una cultura complottista. Che certe sentenze recenti rafforzano, invece di affievolire. Ecco, quello che la gente comincia tristemente a pensare è che il destino del campionato sia già compiuto, molto prima della metà del suo cammino, al di là dello spessore e della qualità delle concorrenti. E al di là delle parole vergate di garbo di Moratti. Cioè, già disegnato e deciso a tavolino. Nicchi, o chi per lui, si riapproprierà dei microfoni di una tv generalista che, di questi tempi, insabbia praticamente tutto, liberando il proprio malumore: è il suo mestiere, è giusto che lo faccia. Senza, però, minacciare o intimidire la stampa libera, come si è permesso di fare ultimamente. Ma quanti saranno ancora disposti a credergli?