mercoledì 28 novembre 2012

Il confine sottile tra etica e regolamento

Prendetela come una provocazione. E, magari, lo è. Oppure, come una tesi ardita. Oppure, ancora, come un semplice argomento sdoganato per discuterne. Perchè qualcosa non ci quadra: nella forma. Malgrado, sulla sostanza, ci sia poco - molto poco -  da eccepire. Dunque: il fair play è indice di civiltà. Anche, soprattutto nel pallone. E i suoi principi vanno rispettati. Non l'ha fatto, ad esempio, Luíz Adriano, un brasiliano di Porto Alegre che ha trovato ingaggio in Ucraina, allo Shaktar di Donetsk, formazione attualmente quotatissima in Champion's League. Nell'ultimo match, di fronte ai danesi del Nordsjaellend, ha segnato: sfruttando, però, un pallone appena restituito dalla sua squadra all'avversario. E, indubbiamente, anche la propria velocità d'esecuzione, nettamente superiore a quella degli scandinavi, certi di non dover temere nulla. Una palla a due comandata dal direttore di gara per riavviare il gioco dopo un infortunio non può e non deve trasformarsi in un vantaggio per chi ha il dovere di disobbligarsi: punto. Non lo scrive il regolamento, ma la prassi è antica e consolidata. Il gaúcho, invece, ha finto di dimenticarsene: collezionando una cattiva figura, i fischi e gli insulti della gente sugli spalti, una decina di cazziatoni e il pubblico ludibrio. Obbligando, oltre tutto, lo Shaktar a rimediare sul campo, immediatamente (i danesi sono facilmente tornati in vantaggio, siglando pochi minuti dopo la rete del due a uno). E, sin qui, ci siamo. Abbiamo dei dubbi, piuttosto, su quello che accadrà più avanti. Perchè l'incrimazione formale della Fifa, cioè il governo principe del pallone, sfocia nella squalifica di un turno al giocatore. Domanda: ma tutto questo, al di là dei valori traditi, è legittimo? Ovvero: è legittimo che un giocatore venga punito per un comportamento profondamente antipatico, censurabilissimo, ma nel pieno rispetto del regolamento calcistico? Perchè, ricordiamolo pure, una palla scodellata tra due avversari, norma alla mano, è libera di essere conquistata da chiunque. Per chiarire: moralmente parlando, la sanzione è meritata. Anzi, può persino apparire debole. Ma il calcio giocato non prevede una norma non scritta: e la Fifa, prima di tutti, ha l'obbligo di tutelare il regolamento del campo. Sappiamo benissimo che Luíz Adriano ha sbroccato e deve pagare: ma, quanto meno, questo è un dettaglio che andrebbe quanto meno dibattuto più profondamente di quanto sia stato fatto e, magari, chiarito. Una volta per tutte. Peccato, però, che nessuno si sia posto il quesito. O che si sia interrogato.

martedì 27 novembre 2012

E se Cellino fosse stanco?

L'ultima di Massimo Cellino: un ragazzino destinato dalla sua società a sbrigare il proprio compito di raccattapalle durante l'ultimo Cagliari-Napoli, riceve un attestato di simpatia da Marek Hamsik, che poi è l'uomo decisivo del match (suo il gol del successo della gente di Mazzarri). E, per questo, viene redarguito e punito, ovvero allontanato. Dove, per allontanamento, si intende la perdita del posto nell'organico del settore giovanile sardo. Va bene che il regolamento interno non prevede che i raccattapalle chiedano (o, eventualmente, ottengano senza volerlo) qualcosa da chi scende in campo: ma, sinceramente, questo ci sembra molto più di abbastanza. Diciamo pure troppo. E va bene che, probabilmente, il presidente è uomo di scaramanzia ultradichiarata. I riflettori su di sè, piuttosto, sembrano attrarlo, disorientarlo. La storiaccia del mancato svolgimento di Cagliari-Roma, per un capriccio di uno dei plenipotenziari più agitati del pallone italico, è ancora fresca. E freschissime, anzi, sono le dichiarazioni che si sono accodate al secondo grado di giudizio, ovviamente sfavorevole: parole oggettivamente senza fondamento. E in sovrannumero. Oppure, Cellino è stanco: del calcio, delle sue dinamiche, dei suoi sottobosco, delle sue pieghe. Meglio ancora, usurato da tanti anni di militanza (assai positiva dall'angolazione dei risultati ottenuta). Forse, con il tempo, ha esasperato - magari inconsapevolmente - la propria intolleranza: prima verso le regole non scritte (ricordiamo, ad esempio, ancora il caso-Marchetti, che sapeva tanto di mobbing) e, più tardi, verso i regolamenti. Comunque, verso certe situazioni e, in generale, verso chi vive ed opera attorno a questo mondo strano della palla che rotola. E, magari, necessita di fermarsi: per un po' o per sempre. Perchè riposare, ad un certo punto, è un diritto. Tanto, a Cagliari lo ricorderanno con stima, per sempre. I riflettori, così, potranno puntare su altre latitudini: sull'isola basta il sole del Mediterraneo.

mercoledì 21 novembre 2012

Eroi di serie A. E di serie B

Faticavamo a crederci, ma è vero. La notizia è vera, assolutamente vera. A Torino, alla Continassa, proprio davanti allo stadio recentemente costruito dalla Juventus, con grande intuizione manageriale e con l'appoggio incondizionato dell'amministrazione comunale, che non aveva lesinato un appoggio concreto (cioè, economico: terreno concesso a basso, bassissimo costo) e che continua a sostenere fattivamente il progetto (l'area della struttura si potenzierà ancora, sempre a basso costo), scorreva corso Grande Torino. Un'arteria pubblica ma, al contempo, un omaggio alla storia (del calcio e della città), ma anche a uno dei simboli dell'italico pallone. Ad una leggenda di cui quest'Italietta un po' meschina di questa quotidianità può vantarsi. Bene, oggi quella strada cambia nome. Si chiama (è ufficiale, dalle quattordici e trenta) corso Gaetano Scirea, indimenticato libero del club bianconero e della Nazionale. Che avrebbe meritato e merita un ricordo, un tributo: nessuno si oppone. Dispiace, però, quella sostituzione. Perchè di sostituzione, alla fine, si tratta. Molto più dolorosa di quelle che si abbattono a match in corso, magari a dodici o a ventisei minuti dalla fine del match. E che tanto infastidiscono e scandalizzano chi, in campo, viene surrogato e, quindi, chi si ritiene sfregiato nell'immaginario collettivo. Quella sostituzione amareggia: anche se a breve, al Grande Torino, sarà intotala una piazza, ma altrove. Non solo la tifoseria del Toro, probabilmente. E non solo la città di Torino: che resta la casa del club granata, il più seguito all'interno dei confini del capoluogo piemontese. Vista così, brutalmente, è come se esistessero morti di serie A e di serie B. Miti di prima e di seconda divisione. Ricordi di primo e di secondo piano. Eroi di prima e di seconda mano. Sacrificati (i secondi) sull'altare del peso specifico, dello spessore politico, della potenza econimica e della forza mediatica di questa o di quella società. Di questa o di quella tifoseria. Di questa o di quella fede calcistica. Di questa o di quella storia. Ed è come se si fosse abbattuta su questo Paese senza più identità una nuova sconfitta. La sconfitta di tutti: nonostante un trasloco non significhi cancellazione del ricordo.

martedì 20 novembre 2012

L'orgoglio ferito che cancella il rigore

Ci sono direttori di gara che non deviano in corsa. Ed altri più disposti a rimettere in gioco se stessi, se serve: talvolta succede. Anche se in campo l'ammissione di colpa, per tanti, è ancora una macchia, una iattura. Molte volte, è questione anche di buon senso: chi ce l'ha, se lo tiene. E, chi non ce l'ha, non può acquistarlo. In altre circostanze, la cooperazione soccorre: e ci mancherebbe, dal momento che gli assistenti si moltiplicano, anno dopo anno. Almeno nel calcio dei più ricchi. Altre volte, la sinergia naufraga nel personalismo: ed è il momento peggiore. Comunque vada, però, sarà un insuccesso: perchè un'ammonizione, un penalty, un cartellino rosso o un semplice calcio di punizione accontenta uno e scontenta l'avversario. Ogni match, poi, possiede una sua storia. E, dentro ogni storia, ci sono atteggiamenti e approcci diversi. La storia di Matera-Battipagliese (serie D, girone H, uno a zero) è inedita, a queste latitudini. Se la memoria non ci inganna, è chiaro. O, meglio, è inedita la storia di un episodio che marchia la partita. Scorre il minuto ventitre, è il primo tempo. Il lucano Ciano interviene sul campano Trimarco: per il leccese Calogiuri è fallo da rigore. Dubbio, per chi rivede il filmato dell'azione. E anche per la maggior parte di chi è allo stadio. L'attaccante battipagliese, tuttavia, si lascia (ingenuamente?) scappare un commento che tradisce la sua simulazione. Un assistente di linea capta e, immediatamente, riferisce. Risultato: soluzione dagli undici metri commutata in fallo contro. E, ovviamente, anche sanzione personale per Trimarco. Giustizia ristabilita, nella sostanza: senza ricorrere ad una moviola che non c'è e che non è ammessa. E senza il minimo sospetto di doversi pentire. Pochi secondi per ricredersi: ma quanto basta per guadagnarsi l'elogio. Non tutti, dicevamo, sanno cambiare in corsa. Anche se, nel caso specifico, una malignità ci spinge a sorridere: ma non vi diciamo quale. Pensiero finale: magari, la tecnologia in campo non sfonda, dilatando il valore delle disattenzioni di chi deve giudicare. Ma, almeno, l'orgoglio ferito aiuta gli arbitri a rivedere le cattive decisioni. E a sconfessare i provvedimenti che, altrimenti, sarebbero tranquillamente destinati a sporcare e spaccare la partita.   

lunedì 19 novembre 2012

Il campionato delle storie già viste

La fede calcistica e il gioco delle barricate non c'entrano. Quelle, magari, sono la cornice. Il problema, invece, è concettuale. Ed è un problema, dicevamo recentemente, di credibilità, innanzi tutto. Che qualsiasi ragionamento, anche il più logico ed equilibrato, non può minimizzare. Che la realtà del pallone (la velocità d'esecuzione di qualsiasi giocata, la fallibilità del giudizio umano, l'ostracismo alla tecnologia) non può cancellare. Che il buon senso (chiunque agisce credendo di operare al meglio: questo è un postulato, altrimenti i giochi si chiudono e non se ne parla più) non riesce a devitalizzare. E che neppure gli interventi stizziti ed istituzionali di Nicchi o di Braschi, ma anche di chi li ha preceduti o li surrogherà, hanno potuto, possono e potranno spazzare. Gli errori (piccoli, minimi, grandi o esagerati) si rincorrono e la classifica della serie A continua a risentirne. Come ieri, come l'altro ieri. E, di conseguenza, si rincorrono pure le polemiche. Solo che, adesso, le incertezze della categoria arbitrale tornano a premiare sempre gli stessi. Sembra di vedere un film già visto. E a metà della gente d'Italia questo non piace. L'ultimo caso sconvolge il finale di Inter-Cagliari, esattamente sette giorni dopo certi dubbi (fondati) sorti durante Atalanta-Inter e non troppo tempo dopo i fatti di Juve-Inter: l'intervento in area su Ranocchia, ad una manciata di secondi dalla fine del match, è chiaramente falloso, ma Giacomelli non vede. Non vedono, sembra, neppure gli assistenti e neanche il quarto, il quinto e il sesto uomo. Occorre andare dagli altri per ottenere la conferma: ma chi siede in gradinata o in tribuna, si sa, non decide niente. La questione, a questo punto, comincia ad indispettire qualcuno: ed è normale che sia così. Perchè la lotta per il titolo, ormai, è fortemente segnata da determinati episodi: comunque vada a finire. Un'altra volta. Detto fuori dai denti, confermiamo tutto: non crediamo a certi giochi sotterranei. Ma il punto è un altro: ci crede davvero anche il tifoso comune, che poi è l'unico e vero cliente del calcio, cioè quello che va allo stadio, che si abbona alla pay tv, che legge i quotidiani e segue le trasmissioni sponsorizzate dalla domenica al sabato successivo? Onestamente, ne dubitiamo. Ecco perchè non è un problema di fede, ma di credibilità. Che, alla fine, sorregge un progetto, la quotidianità, un Paese. E, quindi, anche il pallone, ormai solcato da una cultura complottista. Che certe sentenze recenti rafforzano, invece di affievolire. Ecco, quello che la gente comincia tristemente a pensare è che il destino del campionato sia già compiuto, molto prima della metà del suo cammino, al di là dello spessore e della qualità delle concorrenti. E al di là delle parole vergate di garbo di Moratti. Cioè, già disegnato e deciso a tavolino. Nicchi, o chi per lui, si riapproprierà dei microfoni di una tv generalista che, di questi tempi, insabbia praticamente tutto, liberando il proprio malumore: è il suo mestiere, è giusto che lo faccia. Senza, però, minacciare o intimidire la stampa libera, come si è permesso di fare ultimamente. Ma quanti saranno ancora disposti a credergli?

lunedì 12 novembre 2012

Immobile, non c'è inganno

Il Genoa parte bene, benissimo. E finisce male, sommerso dal ritorno del Napoli. Voto: 5. Il Napoli paga certi affanni recenti e, appena si sveglia Cavani, raggiunge e sorpassa la formazione di Delneri, reinventando un campionato che, lentamente, sembrava spegnersi. Voto: 6,5. Più alta, piuttosto, è la quotazione del giudizio su Ciro Immobile, napoletano che quest'anno prova a segnare in Liguria. Privo, peraltro, della soddisfazione personale da un po' e, dunque, discretamente motivato: e non importa se, di fronte, c'è la squadra della sua città. Merita otto, il ragazzo. E non solo per la marcatura che piove a metà del primo tempo. Il meglio, piuttosto, arriva davanti microfoni, dopo il novantesimo: «È sempre bello segnare, non ci riuscivo da tre giornate, avevo voglia di farlo. Perché non avrei dovuto gioire?». Almeno per una volta, cioè, qualcuno si carica della responsabilità di scalciare l'ipocrisia a cui anche il nostro calcio si sta abituando. E anche quel falso perbenismo che si arrampica quando la questione si fa frivola (perchè, altrimenti, si abbattono legnate: e gli sconti, nel momento in cui il gioco si fa duro, non esistono). Immobile fa quel che deve e si comporta com'è normale che sia: esultando. Per obbedire ad un concetto sacro, dove competizione e professionismo si fondono. Non c'è inganno: e Immobile va riverito per questo. La festa dopo il gol è spontanea e sincera: e non è neppure il frutto emotivo e indesiderato di un riflesso condizionato mal gestito. E sì, perchè pure le emozioni, a volte, si frenano. Non per convinzione, ma per convenienza.  

martedì 6 novembre 2012

Adriano e il talento sprecato

Dalla favela al grattacielo. Andata e ritorno. Adriano Leite Ribeiro spreca anche le ultime briciole di credibilità sopravvissute sulla pedana del Barra Show, uno dei locali del culto carioca, e nella selva di parole dettate per ufficializzare il disimpegno dal Flamengo, il club che aveva provato a recuperarlo un'altra volta. E anche dal pallone. Almeno per un po'. Sì, perchè il ragazzo è certo del suo futuro, ma poi non troppo. Ora, dice, preferisce divertirsi: legittimamente. Avendo, peraltro, già accumulato quello che serve per galleggiare più che dignitosamente anche nel Brasile che continua a crescere. E frequentare la realtà da cui provene, cioè uno dei grandi alberghi di fango e zinco che popolano le colline di Rio. Ad ogni modo, il sacrificio e l'allenamento sono mentalmente lontani. Quindi, basta con l'erba del campo, con l'incombenza degli orari e l'odore dell'olio canforato. Ma solo per qualche mese, assicura. Il contratto con il club della Gávea è stracciato, risolto. Così come gli altri che lo hanno preceduto. Quelli con la Roma e con il Corinthians, ad esempio. Però, ritenterà a garantirsene un altro, giura: nel duemilatredici. La verità, intanto, è che la sua potenza e il suo fiuto realizzativo sono nell'album dei ricordi. Che, con il pallone, Adriano ha ormai molto poco da spartire, dal punto di vista affettivo. Che, senza voler apparire bacchettoni, il suo nuovo stile di vita non puà essere considerato al servizio dello sport. E che un talento puro è andato sprecato, in pochissimi anni. E molto prima del tempo. Contento lui, tuttavia, contenti tutti. O quasi. Ma l'ultima dichirazione (il rientro sul palcoscenico, l'anno prossimo) è solo l'ultimo inganno. A se stesso, soprattutto. Sempre che, su Adriano, esista ancora qualcuno disposto a crederci: tra un giorno, tra un mese o tra sei.

domenica 4 novembre 2012

L'Inter e la credibilità del pallone

L'Inter finalmente plasmato da Stramaccioni va ringraziato. Perchè la suspence che deve alimentare la disputa del campionato è salva. Perchè la battaglia per il titolo resta ufficialmente aperta, cioè viva. Perchè, se la Juve non fugge verso l'infinito, l'interesse popolare è garantito per un altro po' e, dunque, ci guadagna l'intera comunità calcistica d'Italia. Perchè la competizione serrata, da sempre, fa crescere il movimento del pallone. O, almeno, non appiattisce e non impoverisce lo spessore del torneo più blasonato di casa nostra. Ma l'Inter che insegue, agguanta e supera i bianconeri in casa loro e che, soprattutto, reagisce sul campo e con fatti concreti alle ingiustizie (c'è un altro episodio che premia ingiustamente la Juve, appena sette giorni dopo i fatti di Catania) va, forse, addirittura venerato. Perchè la sua rimonta annacqua altre polemiche feroci e galoppanti, ormai sull'uscio. Perchè protegge (meglio di qualsiasi difesa d'ufficio) la categoria arbitrale da un nuovo temporale, ormai difficile da controllare. Perchè libera da ogni imbarazzo la stessa Juventus, tradizionalmente costretta a convivere con certi pregiudizi guadagnati in passato. Alleggerendola, oltre tutto, della responsabilità di un'imbattibilità da preservare. E perchè, piaccia oppure no, puntella un po' la credibilità del pallone, a queste latitudini. Quella stessa credibilità che neppure il designatore si preoccupa di irrobustire. Riservando, per un match ad altissimo rischio, il nome e il cognome di un direttore di gara ormai compromesso - a torto o a ragione, non importa - con la storia. Personaggio serissimo, senza dubbio alcuno: ma anche condannato ad allargare l'alone del sospetto, cioè uno dei caposaldi della Repubblica.

giovedì 1 novembre 2012

Neymar, poi solo sertão

Ci sono le nomination. E riparte la rincorsa, annuale e patinata, al Pallone d'Oro, lotteria senza suspence per un alloro ipervalutato. Che, francamente, non ci solletica granchè. Ovviamente c'è il nome onnipresente dell'argentino Messi, ovviamente anche quello del portoghese Cristiano Ronaldo. E, a rimorchio, un gran numero di spagnoli (Casillas, Iniesta, Xavi, Xabi Alonso, Busquets, Iniesta, Piquet e Sergio Ramos), l'inglese Rooney, il turco di Germania Özil, il francese Benzema, lo svedese Ibrahimovic, l'altro argentino Agüero, gli ivoriani Drogba e Touré, l'olandese Van Persie, il colombiano Falcao, il tedesco Neuer e persino tre italiani (Pirlo, Buffon e Balotelli). Da più lontano, infine, spunta la classe di Neymar, orgoglio del pallone brasiliano. E unico rappresentante del Paese sudamericano: che, da sempre, rifornisce i sogni di mezzo mondo. Non è un dato da poco, pensandoci bene. Perchè, evidentemente, il calcio bailado di un tempo non riesce più a spremere qualità individuali di primissima qualità. La recessione, visto che di recessione si tratta, galoppa da qualche anno, ormai. Come il rendimento insicuro della Seleção sembra confermare. Oltre tutto, a due anni di distanza dai Mondiali che proprio il Brasile ospiterà. Tra non poche polemiche: calcistiche e politiche. Intanto, Neymar è, di fatto, l'unico verdeoro veramente spendibile, oggi, a livello internazionale. Attorno, solo un sertão di mediocrità. Conseguenza, viene da pensare, della veloce europeizzazione del calcio brasiliano. Che, negli ultimi anni, ha riempito gli organici del suo massimo campionato di troppi volantes, quelli che noi chiamiamo mediani: cioè buoni corridori e ottimi incontristi, ma assai poco ispirati. Obbligando l'intero movimento, perciò, a sintonizzarsi sulle frequenze della convenienza spicciola. Un'operazione culturale, prima ancora che un'innovazione tattica: praticamente coeva del percorso inverso reinaugurato dai club europei. Come dire: il mondo cambia in fretta. Anche per questo, probabilmente, siamo sempre più confusi. In attesa di ritrovarci calcisticamente più depressi.