giovedì 5 dicembre 2013

Rumo ao hexa

Dunque, si parte. Più o meno ufficialmente. Prima, i sorteggi dei gironi: proprio in questi giorni. Poi, la scelta delle location: affinché chiunque possa prepararsi come meglio conviene. Infine, tutto il resto. Anche se gli stadi non sono ancora ultimati. Malgrado troppi inconvenienti separino la teoria dalla realtà. Nonostante un dibattito acceso animi e attraversi la società brasiliana. Profumo di Mondiali, diciamo così. Netto e delineato. Ovunque e, innanzi tutto, nel più grande dei paesi del Sudamerica. Dove non esiste alternativa al successo: per una questione di blasone, ovvero di tradizione. Perché, ovviamente, giocare in casa è tutta un’altra cosa. E infine perché, dall’altra parte del mondo, una formazione europea non ha mai vinto il titolo. Tra orgoglio, sicurezza, nazionalismo e passione, striscia pure un po’ di arroganza. E’ quell’istinto di superiorità, quel quoziente di presunzione che, del resto, corteggerebbe tutti: l’Argentina, se i tacchetti si incrociassero, la prossima estate, tra Baires e Rosario. La Germania, se la palla rotolasse a Monaco o ad Amburgo. La Spagna, se la kermesse fosse ospitata ad ovest dei Pirenei. L’Italia, se il campionato si disputasse a queste latitudini. E potremmo continuare. Di certo, però, da un po’ di settimane la macchina organizzativa brasiliana, la stessa federazione verdeoro e l’ambiente tutto provano ad alzare il livello di tensione emotiva. E non solo per occultare le proposte, lo spessore intellettuale e il sèguito, anche e soprattutto mediatico, del Bom Senso FC, che poi è un movimento di recente costituzione, autogestito da calciatori impegnati nel Brasileirão e da addetti ai lavori, ormai convinti dell’improcastinabile necessità di modificare vecchie abitudini e calendari agonistici. In queste giorni, anzi, ci mette del suo Felipe Scolari, il commissario tecnico della Seleção: il Brasile, afferma candidamente, vincerà il Mondiale. Semplice e chiaro. Rumo ao hexa, allora. Proviamo a guardare un po’ più in là e capiamo le intenzioni: i problemi, dal punto di vista organizzativo, non difettano e occorre pur cominciare ad accendere l’opinione pubblica. A coinvolgere la gente. Il problema, però, è che la nazione pentacampeã  ha già ospitato i Mondiali, esattamente sessantatre anni fa. Perdendoli. Davanti ad un Maracanã lotado e a un Uruguay irriverente. Fu un disastro, allora: e non soltanto dal punto di vista squisitamente calcistico. Anche quella volta, il Brasile si avvicinò al torneo favorito, orgoglioso, sicuro di sé e arrogante. Non bastarono Ademir, Zizinho e Jair. Poi, il Paese intero si abbattè su Barbosa, il portiere vessato e, quindi, dimenticato. Il duemilaquattordici, invece, è il tempo di Neymar, ma anche dei Luís Gustavo, degli Hulk, di Bomfim Dante. Tutt’altro materiale, onestamente. Che la vittoria nell’ultima Confederation Cup della Seleção, peraltro, rischia di aver sovrastimato eccessivamente. Ci pensi un attimo, Felipão, prima di sbilanciarsi ancora.

lunedì 2 dicembre 2013

Piccoli tifosi crescono

Certe curve esagerano. Molte sono recidive. Nella zona più franca che c’è, scranni del Parlamento a parte, si ripetono ingiurie, inni beceri, minacce, apologie di reato e chissà che altro. La nuova ondata repressiva del Palazzo colpisce qua e là: risvegliando le proprie coscienze, prima ancora di quelle del nemico più o meno dichiarato. Ieri, pagava il popolo più fedele alla Juventus: curva chiusa alla professione del tifo, come da sentenza recente della giustizia sportiva. Ma un settore totalmente vuoto, in uno stadio, non è uno spettacolo decente. Soprattutto, se l’impianto è nuovo e polifunzionale: dunque, assolutamente a norma e perfettamente agibile. Il club, allora, prova ad aggirare l’ostacolo. E, anche meritoriamente, propone di dirottare su quegli spalti un oceano di bambini, con le proprie famiglie. Chiamatela operazione-simpatia o come preferite: certe iniziative vogliono rappresentare un messaggio, una speranza. E, poi, impreziosiscono la retorica che soffia sempre forte negli studi delle televisioni generaliste o nei fondi di qualsiasi colonna di giornale. Ben vengano, quindi. Nel mezzo di Juventus-Udinese, però, quell’oceano di gioventù candida e gaudente si lascia trasportare. E fuorviare. Sarà per il palcoscenico che lo ha accolto. Sarà per le cattive abitudini che viaggiano per il web e che, perciò, si autopubblicizzano, corrodendo la nostra quotidianità. Sarà per il progressivo imbarbarimento dei costumi, che così velocemente spazza questo paese. E sarà anche perché chi accompagna i giovanissimi festanti - gli adulti, evidentemente - non pensa neppure per un secondo a limitare gli effetti di un entusiasmo che va al di là del garbo (giusto: in Italia si può fare e dire di tutto, perché intervenire e interferire sullo show che avanza?). Comunque, ad ogni rimessa dal fondo di Željko Brkić, il portiere serbo della formazione friulana, corrisponde puntualmente un controcanto persino spiritoso, ma ugualmente offensivo. Che, indubbiamente, finisce per ammaccare le finalità di un’iniziativa incoraggiante. Lasciandoci pensare seriamente che ogni goccia di speranza, in realtà, va guadagnata con lavoro duro e profondo: sulla mentalità dell’italiano medio. E che tanti piccoli tifosi, nella penisola, crescono. Male.

sabato 30 novembre 2013

La giovane rampante e l'antico Richieleu


Lei è giovane, bella, rampante, aggressiva. Erede designata di un impero calcisticamente robusto. Si chiama Barbara. E, di cognome, fa Berlusconi: un marchio di fabbrica. Lui è l’antico Richieleu del pallone italiano, uomo di lotta e di governo, di rustica passione e sottile managerialità. Si chiama Adriano Galliani, plenipotenziario del club più titolato, in Europa. Più del Real, come confermano le statistiche ufficiali. Immagine e sostanza della società: tra storia e futuro. Lei spinge, sgomita, si arrampica, guadagna spazio, accusa e sentenzia. Certe logiche sono sorpassate. Determinate amicizie non convincono. Alcune strategie vanno aggiornate. E così via. Lui, galantuomo vecchia specie (certifica persino José Mourinho, avversario epocale), incassa, assorbe, deglutisce. E assiste con aplomb: prima di decidere. Prima di pubblicizzare il prossimo (e apparentemente scontato) disimpegno. Con una dichiarazione rilanciata immediatamente da ogni agenzia di stampa, da qualsiasi sito web, da tutta la stampa nazionale e internazionale. Salvaguardando, magari, la serena quotidianità del Milan e della squadra: che, a breve, si giocherà la qualificazione alla seconda fase di Champion’s. In attesa di un risveglio, seppur graduale, in campionato. La guerra è generazionale: il nuovo che avanza, il vecchio che resiste. Ma non solo: è anche una battaglia più terrena, che si evolve tra mancate empatie, negli spazi ristretti che non ammettono più di un unico sovrano. Lei delegittima il governatore di quasi trent’anni di calcio. Lui capisce che è il momento di lasciare. Con classe, va riconosciuto. Con garbo. Senza strattonare. Ma il padrone del battello, tra i mari burrascosi della sua vita politica e privata, non può cancellare la storia, come se niente stesse accadendo. Silvio Berlusconi rompe il silenzio e, proprio al novantesimo, come quasi sempre succede, interviene. Solidificando, se mai ce ne fosse bisogno, le referenze del suo amministratore delegato, amico di sempre e compagno di avventura consumato. E’ tutto a posto, nel Milan non esistono correnti, non c’è spazio per la discordia. Tutto a posto, Galliani ha scherzato. Non ci saranno dimissioni: né dopo il match di Coppa con l’Ajax, né mai. Il Richelieu di casa nostra rimane. E governerà ancora a lungo. Con Barbara, Silvio troverà una soluzione. L’immagine è salva. E pure la sostanza. Anche se Galliani, in fondo, aveva capito il problema, accettato la realtà: il rinnovamento, molte volte, è necessario. Purché suffragato dalla forma: tradita nei fatti. Quella forma a cui non rinuncia, piuttosto, il padrone del Milan. Senza badare troppo, magari, all’essenza del problema. Che resta. Barbara da una parte, Adriano dall’altra. E, in mezzo, una frattura profonda.

lunedì 25 novembre 2013

L'urgenza che cancella la boutade


Avevamo dribblato i fatti di Salerno, bypassato la tragicomica nocerina nel derby mai sbocciato dell’Arechi. Volutamente. Primo, perché ha gareggiato chiunque, nella palestra dei commenti. E, tante volte, una voce in più non serve. Secondo, perché la retorica facile non ci coinvolge. Terzo, perché spigolare tra le debolezze del sistema, l’inutilità di certi provvedimenti di palazzo, le contraddizioni delle norme e delle regole, l’inefficacia di certe misure preventive, lo strapotere di alcune frange del tifo italiano e i conflitti di tanti interessi significa sprecare troppe parole, senza peraltro giungere ad alcun obiettivo. Quarto, perché troppi particolari hanno finito per traghettare una buona fetta dell’opinione pubblica verso soluzioni semplicistiche. Tempo dopo, però, di una cosa siamo ormai sicuri: qualcosa di grave è accaduto. Prima, durante e dopo quella partita che la Nocerina ha rinunciato a giocare, sulla spinta delle minacce della propria tifoseria: ancora da provare, ma evidentemente concrete. Prima, durante e dopo quei fotogrammi senza logica (perché, a quel punto, giocare? Sì, è vero, conosciamo la risposta, problemi di ordine pubblico, ma non ci convince). Mentre cominciano a delinearsi le posizioni, i punti di vista e le responsabilità. E anche le linee di difesa. L’ultima, in ordine di tempo, è quella della Nocerina, ormai seriamente preoccupata di dover di pagare duramente, anche con l’esclusione dal campionato e dalla prossima serie C unica (anche il rinvio del match successivo a quello di Salerno, in programma ieri con il Lecce, seppur immotivato nella sostanza, qualcosa lascia pensare). Sì, dice il direttore generale Pavarese, le minacce degli ultras ci sono state, tutti sapevano, anche la Questura: la confessione ai microfoni di Rai Sport. Se è vero, perché non dirlo. Se non é, invece, davvero così, perché non tentare anche questa strada per parare il verdetto che si sta abbattendo. Ma Pavarese, se qualcosa abbiamo capito, questa volta non mente. Mentiva sciattamente e ingenuamente, magari, proprio il giorno del derby, quando avrebbe voluto farci credere a cinque infortuni reali, nello spazio di pochi minuti. E all’esigenza di dover consumare tre cambi dopo pochi secondi di gioco. Chissà se, almeno oggi, avrà realizzato il basso profilo di certe dichiarazioni affrettate o, peggio, costruite artatamente per farsi beffa dell’intelligenza di ognuno di noi.

giovedì 17 ottobre 2013

L'Italia dei deboli e l'impunità dei forti

Dicevamo: le parole sono pesanti. E vanno usate con intelligenza. E serietà. Altrimenti, meglio lasciarle ad altri. Parlare (e pensare) male non è come scrivere colpevolmente, ma il problema rimane ugualmente. Anche se le sillabe, più o meno infelici, scivolano – quasi inosservate – in uno stadio. O all’interno di una tribuna stampa. Dove sarebbe normale attendersi una migliore qualità intellettuale, se non altro. Non solo di questi tempi, in cui continuiamo a discutere troppo spesso di razzismo e di territorialità: ma sempre. Il dottor Baldassarre è un medico assai conosciuto nella sua città, Foggia. Si è occupato di antidoping, per anni. E, da anni, coltiva un’occupazione parallela: scrive. E, in alcuni salotti televisivi, commenta. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco pubblicisti. E, ovviamente, del Foggia è sostenitore appassionato. Possiede, come tanti, precise idee politiche: diciamo pure di tenore decisamente nostalgico. Che non ha mai nascosto, peraltro. Baldassarre, però, durante il minuto di silenzio osservato in tutti i campi italiani, in memoria dei migranti annegati nelle acque tra Lampedusa e l’Africa, non più di due domeniche addietro, ha oggettivamente sprecato un’insostituibile occasione per tacere. Una frase di cattivo gusto, ecco. Un po’ grossolana, becera. Ed anche retorica. Diseducativa, se vogliamo. Prontamente riportata da chi c’era, duramente censurata dall’Ordine stesso e, infine, sanzionata con un daspo. Cinque anni, in tutto: esattamente il tempo in cui Baldassarre dovrà disertare gli stadi e frequentare la questura per la firma di prassi. Condanna esemplare, come hanno detto e scritto. Eppure, per quel che ci riguarda, anche esagerata. D’accordo, le parole pesano. E uccidono quasi quanto le armi. Ma cinque anni sono una pena smisurata: soprattutto se comparata al castigo inflitto – quando avviene – a chi, dentro e fuori del campo, nell’anonimato di una curva o di una strada, commette qualcosa di molto peggio. A chi, tuttavia, possiede un volto conosciuto o riconoscibile e, molto spesso, lascia una firma indelebile, impunemente. Pretenderemmo, a questo punto, retate settimanali: in ogni angolo d’Italia. E pene automatiche. Ma sappiamo che non avverrà: Questo è il Paese di sempre: forte con i deboli e debole con i forti.


martedì 15 ottobre 2013

La democrazia e il peso delle parole

Mario Balotelli è quello di sempre: teso, ruvido, nervoso. Un ragazzo un po’ così: a cui la vita qualcosa ha tolto, in passato. Restituendogli, più avanti, parecchio. Dal carattere forte, ma in formazione. Talvolta inopportuno: nelle parole, nei comportamenti. Da sembrare addirittura arrogante. Refrattario a certe consuetudini e certe regole: scritte e non scritte. Un attaccante rampante ed esplosivo (sotto qualsiasi angolazione) di ventitre anni che, sempre più spesso, si attira ogni genere di complicazione: per leggerezza, superficialità, ingenuità o sciatteria. Dimostrando esattamente quello che è: un professionista del pallone universalmente considerato, ma anche disattento a certe dinamiche. E, comunque, totalmente inserito nella sua quotidianità: in cui è preferibile apparire, prima di tutto. Ma pure ingiustamente collocato al centro di qualsiasi questione: anche in quelle più grandi di lui. E, per questo, difficilmente gestibile. Di Balotelli, in realtà, si parla troppo, da sempre: questa è la verità. Persino quando lui stesso ne farebbe a meno. Ancora prima che ci metta del proprio. Come nelle ultime quarantotto ore. Il suo tweet, in prossimità dell’incontro tra la Nazionale di Prandelli e l’universo della legalità promosso dai dilettanti del Quarto, non è passato inosservato: devitalizzando, seppur in parte, lo spessore dell’iniziativa a cui la Federazione e lo stesso coach sembravano e sembrano tenere parecchio (il codice etico, di questi tempi, è cosa seria assai, per fortuna). E proprio Prandelli, più di altri, non ha affatto gradito. Trovando immediatamente una contromisura che, di certo, non possiede tutti i criteri di una soluzione democratica e che, perciò, fa già (e farà ancora) discutere: ai prossimi Mondiali brasiliani, per i quali l’Italia è già qualificata, verrà vietato a chiunque l’utilizzo dei social network, cioè uno dei simboli indiscussi di una generazione proiettata nel mondo della comunicazione. Quella stessa comunicazione che molti protagonisti, soprattutto tra i più giovani, faticano a decodificare e utilizzare. Sarà poco democratico, Prandelli. Ma il concetto, in fondo, è giusto: le parole sono pesanti. E, talvolta, non meritano di essere pubblicate.  




lunedì 7 ottobre 2013

Evacuo e l'intolleranza da derby



Frizioni, rivalità e male parole. Cose da derby. Da partite speciali. Nella metropoli, come in provincia. Eppure, ci sono partite più speciali di altre. In cui si alza lo steccato dell’intolleranza. Benevento e Nocerina viaggiano divise da profonde inimicizie: sugli spalti, ovviamente. E Felice Evacuo è l’artigliere principale dei sanniti: uno che, in categoria (la terza serie) può scavare la differenza. Uno che, anche, possiede mercato: e che, in più occasioni, si è ritrovato a cambiare casacca. Pure nel corso dell’ultima estate: ritornando da un’avventura di sette mesi consumata proprio a Nocera. Bene: Evacuo segna (ma il direttore di gara annulla) e non esulta: ormai è consuetudine. Che fatichiamo a condividere. E, sin qui, tutto bene: anche se, in curva, qualcuno potrebbe persino non aver gradito, chissà. Il Benevento, però, si impone ugualmente, alla fine. Ma, proprio alla fine del derby, accade quello che non dovrebbe accadere: l’attaccante, con tutta la squadra, saluta il proprio pubblico e, prima di rientrare negli spogliatoi, si permette di omaggiare con un applauso anche la sua ex tifoseria che lo chiama. Tutto normale. Anzi, no. La reazione della torcida beneventana è veemente ed esagerata. E si riassume nell’inopportuno comunicato diffuso immediatamente dopo:  «Il signor Felice Evacuo entro stasera deve effettuare la rescissione del contratto e contestualmente è pregato di lasciare la città. L'eventualità che Evacuo possa presentarsi alla prossima seduta di allenamento sarà considerato un affronto alla Curva Sud». Tutto vero, avete letto bene. Cose che accadono, quando il tifo organizzato si arroga il diritto di determinare i destini di chiunque e, in fondo, del calcio stesso. Più calibrata, piuttosto, è la risposta di Oreste Vigorito, presidente del club: «Certi gesti andrebbero presi per quello che sono: sportività». Sì, sportività. Quella condizione strana che l’italiano medio, tante volte, ignora e rifugge. Che le curve, ancora troppo spesso, denigrano e combattono. Che il calcio, giorno dopo giorno, disconosce e annulla. Lasciandoci un senso di tristezza infinita. E facendoci capire quanto il pallone assomigli, sempre di più, alla nostra quotidianità. Dove la normalità è un universo distante, desueto, impraticabile. E l’anormalità è regola.



lunedì 30 settembre 2013

I veleni e il silenzio

E, dal momento che ci siamo, continuiamo. Agli italiani, in fondo, piace così. E anche ai padroni del movimento calcistico nazionale: colpevoli, soprattutto, di non adeguarsi alle novità tecnologiche che, talvolta, potrebbero attutire le frizioni. Forse perché, senza, è più agevole manovrare i destini altrui e radiocomandare il gioco. Sette giorni dopo, un altro episodio di cattiva gestione dell’argomento offside spazza la serie A. Ne soffre, ovviamente, una società solitamente maltrattata da decisioni e atteggiamenti arbitrali (il Torino). E ci guadagna, ovviamente, un club politicamente forte (la Juventus). E’ solo un caso (o forse no) che la partita sia innanzi tutto un derby: uno di quegli avvenimenti che si caricano di tensioni suplettive e che trascinano polemiche infinite, resistenti nel tempo. Ed è una coincidenza che proprio la Juve benifici, nello spazio di soli sette giorni, di un altro aiuto provvidenziale. Provvidenziale nell’immediato (il match è tirato, il Toro si cautela tenacemente, la formazione di Conte zoppica e il risultato non si sblocca) e in prospettiva futura (logica alla mano, se i bianconeri oggi stentano e vincono ugualmente, quando recupereranno il proprio passo dovrebbero scavare una distanza incolmabile dagli avversari). Provvidenziale, certo. Ma anche pericoloso: per il calcio, in generale. Perché, è inutile fingere di ignorarlo, anche e soprattutto questi particolari derubano il campionato della sua regolarità e il calcio della sua attendibilità. Sforzarsi a parlare di buona fede, poi, sarà anche politicamente corretto: ma la gente che vuole capire e pensare comincerà davvero a non crederci più. Sempre che ci creda ancora.  Anche questa volta, però, la radiografia del misfatto ci interessa poco. Chi ha visto le immagini, sa. E chi vuole accontentarsi gode. Infastidiscono di più, semmai, le repliche e le controrepliche del club che si è avvantaggiato della nuova (ennesima) situazione. Commenti, post e tweet ufficiali, alcuni persino grossolani (certe dichiarazioni del tecnico, ad esempio, ci sembrano tatticamente anche appropriate, ma eticamente inopportune): c’è di tutto. D’accordo: difendersi è prassi normale, in ambito dialettico. E il confronto è la base della democrazia. Ci sono momenti in cui, però, il silenzio semplifica le cose e riduce gli attriti. Il silenzio: non tanto come ammissione di colpa. Ma come gesto di distensione. Qualcuno non capirebbe ugualmente, però qualcun altro gradirebbe, magari. I veleni, almeno, rimarrebbero tutti da una parte: dalla parte degli sconfitti. Giustamente o ingiustamente, non importa: ma piegati da un’ingiusta valutazione arbitrale. E, invece, i veleni circoleranno per un po’ anche dall’altra parte della barricata, quella premiata da un episodio chiarissimo. Senza evaporare. Anzi, trasformandosi chimicamente in spocchia.


martedì 24 settembre 2013

L'aplomb e il miracolo della memoria


Scioccamente, ci eravamo riproposti di non ritrovarci sul luogo dei delitti di ogni domenica (o di ogni venerdì, o sabato: tanto, si gioca ogni giorno, ormai). Di dribblare le analisi e le polemiche che gocciolano da ogni singolo episodio controverso. Ogni singolo episodio che edifica una partita e, certe volte, un campionato: l’offside occultato o negato che offre l’urlo del gol, l’intervento mal interpretato che si trasforma in penalty o quello falloso che svicola nella lista dei non pervenuti. E, con l’episodio, tutto quello che segue: per un giorno, una settimana, un mese. O un anno. Ma il campionato è ripartito e si fa già molto sul serio: dunque, qualcosa accade sempre. E la nostra ingenuità frana con le migliori intenzioni. Eppure, non è tanto sull’episodio, questa volta, che ci concentreremo. Ma sugli scampoli di fair play che lo tallona. La rilassatezza che segue il fatto, intanto, va sottolineata e benedetta: a Verona la Juve supera il Chievo, segnando il punto decisivo dopo aver beneficiato di un errore evidente dell’assistente di linea Preti (recidivo, nello specifico: ma non infieriamo), che sbugiarda e condiziona il direttore di gara, De Marco. Il fuorigoco di Paloschi non c’è, punto e basta. E la marcatura andrebbe, invece, convalidata. Sannino, coach clivense, è uomo di stile e di sport e accetta la decisione senza agitarsi. Come il presidente Campedelli, come tutto l’ambiente. Voto: nove. Dall’altra parte, sùbito dopo, parole sincere di stima per l’aplomb degli avversari. Il tecnico juventino Conte, anzi, fa anche di più, ammettendo il peso specifico di quello che possiamo ritenere un regalo involontario e dettando frasi distensive. Del tipo: il comportamento del Chievo è un esempio per tutti, chiunque dovrebbe ragionare così, quando l’errore arbitrale premia e anche quando penalizza. Voto: nove e mezzo. Sottoscriviamo la bontà dei concetti: consapevoli, tuttavia, che certi pensieri non si duplicheranno facilmente. Mentre aspettiamo che proprio lui, Conte, faccia altrettanto alla prima occasione negativa, se e quando accadrà. La stagione passata, ad esempio, la possibilità gli passò davanti un paio di volte, non di più. Ma transitò invano. Però, forse, erano altri tempi. Che, adesso, son cambiati. Fingiamo di crederci. Confidando nel miracolo della memoria.

sabato 24 agosto 2013

Sheik e la sconfitta di noi tutti

Nessuno dei cinque continenti sembra ancora abituato ad assorbire sconvolgimenti concettuali, a deglutire storie di ordinaria umanità, a tollerare il prezzo della diversità, a gestire la democrazia. E il sesto, quello del pallone, ancora meno. Se il calcio è guerra di religione, non c’è assoluzione per niente e per nessuno. Le regole non scritte impongono la propria legge: tutto ruota attorno all’onore. Della maglia e delle fede di chi vive per la maglia. L’onore, prima di tutto: e stop. Che non va scalfito: soprattutto dall’avversario. Il più interessato, cioè, a denigrare, ad insultare. Il calcio, del resto, è un circolo tribale. E guai a ridursi nelle condizioni di essere derisi. E trafitti. Emerson Sheik è un attaccante brasiliano, in dote ad una delle formazioni più amate e decorate del paese sudamericano, il Corinthians. Ovvero, anche il club tradizionalmente più vicino alla materia dei diritti del singolo (ricordate la Democracia Corintiana instaurata da Sócrates e compagni nel mezzo della dittatura militare, negli anni ottanta del secolo appena trascorso?). Ecco, Sheik è una persona normalissima. Con una famiglia già formata. Eppure, ritratto – per scherzo, per gioco, per quella strana mania di spedire in rete tutto ciò che ci riguarda e che riguarda chi è prossimo a noi – in una foto compromettente, scattata e postata da un social network. In cui si scambia – per scherzo, per gioco, per quella strana mania di voler vivere ogni momento sul palcoscenico – un’effusione con un altro uomo: facilmente decodificabile tra quelle sconvenienti. E ovviamente condannata: in particolare dalla gente che tifa per la formazione paulistana. Assalita, dunque, nell’intimo del proprio orgoglio, assaltata nei meandri della propria fede. E, comprensbilmente, nuovo oggetto di scherno nemico: sponda Palmeiras, soprattutto. La gente, il mondo e, in particolare, il pallone non sono ancora preparati alle rivoluzioni culturali, dicevamo. Inutile girarci attorno. Così, la Fiel, la torcida corintiana, ha immediatamente preteso un chiarimento. Anzi, pubbliche scuse. E Sheik, travolto dai riflettori, ha vissuto male questo momento inatteso: pagando il nervosismo accumulato anche con l’espulsione in Coppa del Brasile, nel corso di un match (perso) contro la Luverdense, formazione di terza serie. Fino a cedere, sotto la pressione delle convenienze. Quindi, rammarico e autocensura, tutto in un incontro appositamente organizzato con la tifoseria organizzata. In sostanza, una formale richiesta di perdono: per non aver commesso, è questo il lato più triste della storia, alcun crimine. E, tra le parole spese, una motivazione di fondo: «In un ambiente pieno di rivalità e provocazioni, qualsiasi questione può essere motivo di speculazione». Ecco l’ennesima, irrimediabile sconfitta. Di tutti.

venerdì 2 agosto 2013

Calcio, affari e l'incertezza delle regole

Blatter spinge, l'International Board si adegua, la norma cambia. Il potere del presidente, monarca assoluto del pallone che ancora riesce a sopravvivere a se stesso, si estende. E si riduce quello dell'unico organo calcistico autenticamente indipendente, almeno sino a pochi anni fa. Da questa stagione, la regola del fuorigioco, concetto di mille battaglie verbali, si completa e si complica. L'offside, del resto, è quel buco nero che inghiotte tutto e tutti: anche la storia e la tradizione. Il pallone si evolve: succede, quando conviene a chi può. E qualunque cosa è possibile, nel nome del progresso. E del business. La new economy del calcio vuole un gioco più facile: che, proprio per questo, diventa sempre più difficile. Un gioco che, oggi più di ieri, sappia ingolosire chi muove i fili. E, dunque, chi ne trae profitti. La norma, in sostanza, si piega alle logiche della convenienza e si abbruttisce. Orami è deciso: dalla stagione agonistica appena partita, quando un giocatore si dirige verso la palla, andrà considerata anche la distanza e la possibile interferenza dell'attaccante nei confronti del difensore. Materia buona per alzare il quoziente di discrezionalità del direttore di gara: esattamente quello di cui faremmo volentieri a meno. Dunque, per ingigantire il peso dele polemiche, delle accuse e degli abusi. E per alimentare il livello di acidità dei nostri campionati, ovviamente. L'equazione è semplice: meno vincoli regolamentari, più occasioni da gol, più spettacolo. Sarà. Persino Nicchi sembra aver bocciato l'idea. Alla quale, lui per primo, dovrà adeguarsi. L'allenatore degli arbitri italiani prevede nuovi bordellacci infami: e fa bene a temerli. Tornare indietro, però, non si può: è già tutto deciso. Seguendo un disegno chiaro: difettando la certezza della pena (o, in questo caso, del regolamento), amministrare il sottobosco e dirigere il traffico in bilico tra il lecito e l'illecito è più facile. Nel pallone come nella quotidianità di tutti noi. E chi ci governa lo sa bene.

martedì 4 giugno 2013

Milan, chi vince e chi perde

Tante, troppe settimane per incrociare il punto di partenza. Tanti, troppi giorni per genuflettersi di fronte alla realtà di un contratto. Che, talvolta, anche in Italia occorre rispettare. Tante, troppe pagine di giornali, minuti di televisione pubblica e privata e conversazioni sprecati: per poi abituarsi, tutti, ad una decisione datata nel tempo. Minacciata, sì, ma anche meravigliosamente inattaccabile dai fatti: che sono, poi, gli ostacoli economici, gli intrighi di Palazzo e il buon senso che, per una volta, la piazza - tradizionalmente umorale, puntualmente forcaiola - riesce a riesumare e ad utilizzare. Anche in questo caso, però, non c'è la notizia. Perchè la conferma di Allegri sulla panchina del Milan notizia non è. Il trainer livornese resta dov'è: come da accordi intercorsi in epoche più o meno remote. E, appunto, sottintesi tra le parole di un contratto. Che Berlusconi, il garnde inquisitore e, si dice, anche il grande sconfitto, deve deglutire con amarezza. Rinviando il discorso con Clarence Seedorf, successore già designato del coach che rimane. Delegittimato, Allegri, da incursioni verbali e manovre chiarissime: eppure, disposto - nonostante la certificata mancanza di feeling con la proprietà - a proseguire il viaggio con il club di via Turati. E a rinunciare alle proposte pressanti della Roma. E sì, perchè l'allenatore toscano fermo non sarebbe rimasto, comunque. Gratificato, oltre tutto, dalla robusta buona uscita che il Milan non ha saputo (o voluto) garantirgli. Perde Berlusconi, vince Allegri: dopo una prima analisi dei fatti, sembra davvero così. Non ci giureremmo, comunque: intanto, perchè il patron ottiene in cambio, come una nota ufficiale fa trasparentemente affiorare, una condivisione di vedute tra la panchina e la prima scrivania. Una specie di collaborazione complicata e, forse, anche pericolosa: diciamo pure così. Allegri, poi, dovrà necessariamente accontentarsi di quanto il mercato consentirà alla società: prendere o lasciare. E poi sa benissimo che, da qui in poi, niente gli sarà perdonato. Il quadro, adesso, è più nitido. Berlusconi perde qualcosa, Allegri non vince. Qualcosa, per dirla tutta, concede pure la dinastia del presidente: convinta com'era di liberarsi della presenza scomoda di Galliani, tutor máximo di Allegri. Passando la linea paterna, Barbara Berlusconi avrebbe oggettivamente obbligato l'amministratore delegato a sgonfiarsi. Ed è proprio il capolavoro tattico e diplomatico di Galliani a scolpire questa storia. E' proprio questo Richelieu dei giorni nostri a ritagliarsi un successo rumoroso e totale. Spartendosi i meriti con le curve del Meazza e la squadra, sponsor di seconda fascia dell'allenatore. Utili nella corsa all'obiettivo: ma assolutamente impotenti, anche abbastanza presto, se la stagione milanista dovesse partir male. O non troppo brillantemente. Perchè il consenso popolare è etereo e vago. E perchè una squadra non si cambia, così all'improvviso. Però un allenatore, prigioniero di un contratto e di qualche clausola non scritta (ma ampiamente pubblicizzata), sì.

lunedì 3 giugno 2013

Gattuso, personalità e sana incoscienza

Gennaro Gattuso è un combattente abituato alla battaglia, votato alla sfida. E la sua nuova sfida si chiama panchina. Ci ha già provato al Sion, in Svizzera, ancora con la mansione ufficiale di leader sul campo, di giocatore di lotta e prestigio. Ma l'Italia è un'altra dimensione. E le panchine della penisola pretendono e scottano di più: malgrado l'esperienza al di là del confine sia maturata al fianco di un presidente volubile e scomodo. Partire dalla serie B è l'ideale: gavetta pregiata, distanze minime dal pallone che conta davvero. Certo, però, che Palermo, nell'universo della seconda serie, è un'altra cosa. Per il passato (quello recente, soprattutto) del club e per le esigenze di una piazza importante (la quinta realtà italiana, ricordiamolo), ancorchè delusa dagli ultimi eventi. E, innanzi ad ogni altro discorso, per la vorace inquietudine del suo patron Zamparini, il nemico numero uno di chi si siede sulla panca. Traduzione: ci vuole coraggio. Cioè: cominciare così, nella casa delle incognite, è una sfida dentro la sfida. Uno spreco supplementare di energie psichiche e nervose. Ma. in certe situazioni, serve anche personalità: che a Gattuso non manca. E un po' di sana incoscienza, anche. Quella che, forse, spinge un  allenatore che deve scalare il suo primo vero incarico di caudillo. E che, proprio per questa strana condizione, non possiede ancora nulla da perdere, sul piano dell'immagine. Una qualità che, di contro, sembra convincere anche Zamparini. Trovatosi, immaginiamo, di fronte ad un altro problema: convincere qualcun altro ad accettare la proposta. Perchè di tecnici lanciati verso una stagione di interrogativi se ne trovano sempre meno.

mercoledì 8 maggio 2013

E, dal Palazzo, silenzio imbarazzante

Silenzio imbarazzante. E, speriamo, anche un po' imbarazzato. Nelle ore e pure nei giorni immediatamente successivi ai festeggiamenti juventini, la Lega e la Federazione non sono intervenuti ufficialmente: nè per legittimare le rivendicazioni della società bianconera (che ha urlato il diritto di fregiarsi della terza stella e del trentunesimo titolo guadagnato, a fronte dei ventinove scudetti vantati), nè per bacchettare quella che sembra una prevaricazione alle più elementari regole del pallone. Operazione che ritenevamo e riteniamo ancora doverosa, oltre che automatica. Abete, il presidente federale, è in realtà apparso timidamente: complimentandosi con i vincitori e ribadendo che il suo punto di vista non è mutato. Senza approfondire, cioè: blindandosi in una posizione morbida, troppo blanda. Ci incuriosirebbe, allora, la reazione del massimo dirigente e del Palazzo tutto se, un giorno qualsiasi, il Torino dovesse cominciare a pubblicizzare i suoi otto titoli contabilizzati sul campo, invece dei sette riconosciuti. O se l'Inter dovesse arrogarsi il diritto di aggiungersi uno scudetto in più: per esempio, quello del cinque maggio di qualche anno fa. O se, altrettanto, dovesse fare la Roma. O la Fiorentina. E tutti quei club che si ritengono, a torto o a ragione, defraudati di qualcosa. Non solo negli ultimi quarant'anni.

domenica 5 maggio 2013

Scudetto alla Juve, questione di numeri

Formalità sbrigata: la Juve supera il Palermo e festeggia il titolo davanti alla sua gente, nel suo stadio. Legittimando la propria palese (e indiscussa) superiorità e l'esagerato divario che intercorre, oggi, tra la formazione di Conte e chi ha inseguito, più o meno timidamente. E, comunque, sino ad un certo punto: quando, cioè, interloquire con i più dotati è diventato tecnicamente impossibile. Il cinque maggio è un giorno fortunato, sulla sponda bianconera di Torino: ed è singolare che l'aritmetica accarezzi Pirlo e compagni proprio in questa data. Malgrado i paragoni tra questo successo e quell'altro di un po' di tempo fa non regga: troppo diverse, le modalità, per accoppiare i due momenti. Scudetto numero ventinove: sia detto per chiarirlo, una volta di più. Perché l'albo d'oro possiede ancora la virtù dell'ufficialità. Che non si piega ai desideri di chi ne conta un paio in più oppure tre o quattro in meno. Ovvio, i supporters di ogni colore continueranno a calcolare in maniera differente: ma ce ne faremo una ragione. E, in fondo, non è neppure reato. Così come la tifoseria juventina continuerà ad esibire, sugli spalti e persino sull'erba appena calpestata, sùbito dopo il novantesimo del match decisivo, striscioni e bandiere con un numero che non corrisponde alla realtà: passi pure, non è un problema. E', piuttosto, un problema - un antipatico problema - che anche il club di corso Galileo Ferraris si accodi a questa tendenza, ostentando sull'autobus scelto per trasportare la squadra al centro della festa lo scudetto tricolore con il numero trentuno. Mentre anche i festeggiati, che poi sono tesserati della società, esibiscono un simbolo analogo. Chissà se la Lega e, soprattutto, la Federazione troveranno qualcosa da obiettare: ci piacerebbe conoscere la posizione del Palazzo. Così, giusto per sapere.

lunedì 29 aprile 2013

Il silenzio degli sconfitti

Tremenda è la lotta. Soprattutto in fondo alla strada, quando diventa fondamentale dribblare la sostanza della retrocessione, abbandonando la forma. E quando troppi nomi importanti concorrono per raggiungere il traguardo: Genoa e Palermo su tutti. E, da ieri, ufficialmente anche il Torino di mastro Ventura. Che, giropalla o no, possiede il materiale che conosciamo: abbastanza limitato, dal punto di vista squisitamente tecnico. E, forse, pure da quello caratteriale. E che, probabilmente, sconta un certo rilassamento dell'ambiente: credutosi salvo troppo in fretta. Il Torino, anzi, è la formazione più sofferente del lotto, oggi come oggi. E quella psicologicamente meno abituata alla situazione che sta vivendo. Se Genoa e Palermo appaiono, cioè,  fortemente motivate, il Toro è in sicura recessione: e questo, ad un certo punto della stagione, conta. Probabilmente, il pessimismo cosmico della gente granata ingigantisce la crudezza dellla realtà: incidendo pure. Mentre, magari, la situazione non è così irrimediabilmente compromessa. E alla fine, chissà, Bianchi e soci si salveranno agevolmente. Ma nulla ci vieta di pensare che il quadro clinico della squadra si sia fortemente appesantito. E che il Toro la retrocessione un po' se la cerca e un po' se la merita: se non altro, per quella strana mania di farsi scivolare tutto addosso. Come se niente lo riguardasse. Prendiamo il derby, quello di ritorno: che è, poi, soltanto un pretesto. E, al contempo, un film già visto. Che abbiamo già avuto occasione di commentare: ma ripetersi, certe volte, non guasta. Vince la Juve, come da copione. Come da pronostico. Perché, analizzando serenamente il divario di artiglieria, non c'è partita. Ma vince proprio in coda al match, gocando come dovrebbe giocare il Torino, casa storica del tremendismo. Potento contare, ovviamente, su qualche facilitazione: da una parte un certo tipo di fallo è punito severamente, dall'altra no. E in un'area è più facile scorgere la scorrettezza e nell'altra no: al di là del fatto che Jonathas, prima di essere atterrato, sia di qualche centrimetro in offside. O che il contrasto tra Glik e Chiellini possa essere recintato nel terreno della consuetudine. Nessuno, comunque, urla allo scandalo. Primo, perché - a fronte di episodi che navigano ai limiti della certezza - scandalo non c'è. Secondo, perché il Torino non fa notizia, mai: lasciando il palcoscenico agli altri. Che se lo prendono sempre, a prescindere: con la forza del torto o della ragione. Terzo, perché anche l'informazione nazionale ama glissare certi particolari, quando manca l'audience. Quarto, perché la società continua a tacere, dopo anni di rodaggio: e, dunque, acconsentendo. Lo stesso Glik, riflettendo sulla rete, si lascia scappare un tweet, che di questi tempi è operazione assai trend: «Non so che dire», scrive. Ecco, appunto: l'abitudine al silenzio genera altro silenzio. Quello degli innocenti. O dei brutti, sporchi e sconfitti.

giovedì 18 aprile 2013

Quando il giovane Stramaccioni esagera

Andrea Stramaccioni è giovane e si farà. E, intanto, comincia a misurarsi con il mondo: senza risparmiarsi parole appuntite, battute franche, spunti polemici. Puntando dritto sull'universo arbitrale, se serve (e serve spesso): trovando spazio, in diverse occasioni, dalla parte della ragione, che sia detto. Oppure, alzando la barricata tra sé e la critica: che non ama o mal sopporta. Trovando puntualmente la motivazione logica, ma anche tecnica e tattica, che spiega le difficoltà croniche dell'Inter, il regresso caratteriale del collettivo, la rinuncia alla manovalanza giovane (sulla quale avrebbe dovuto fondarsi la ricostruzione, come da programma societario) e il fallimento del progetto. Osteggiato, va detto pure, dall'intensificazione di infortuni di differente natura, che finiscono con l'incidere - e non poco - sulla classifica: assolutamente improponibile per un club di pima fascia. Che, olte tutto, si ritrova a metà aprile senza prospettive (la qualificazione in Champions è andata, quella in Europa League quasi) e senza alternative consolatorie (il cammino europeo si è interrotto di fronte al Tottenham e, da ieri, Zanetti e soci hanno salutato anche la Coppa Italia, contestati dalle tribune). Il tecnico, però, resiste e controbatte. Aggirando il problema della riconferma, non più così automatica, malgrado le assicurazioni di patron Moratti. E facendosi regolarmente scudo, gli va dato atto, della squadra: come il suo predecessore Mourinho insegna. Proteggendo la truppa dalle insidie dei commenti, deviando le contestazioni, attirando quasi tutte le attenzioni. Senza assumersi, magari, neppure troppe responsabilità. Ma non dimenticando mai di tributare al gruppo la propria soddisfazione, che è poi la soddisfazione di un allenatore paziente e comprensivo. E' accaduto anche ieri, sùbito dopo la nuova e imbarazzante caduta, di fronte alla Roma, nel match decisivo di Coppa. Sconfitto, ma ugualmente compiaciuto della prestazione: il coach rilancia. Forse, solo per necessità e non certo per convinzione: lo stratega deve pur inventarsi qualcosa, per parare il contraccolpo dell'eliminazione. Ma, questa volta, il giovane Stramaccioni esagera. Offendendo la sua intelligenza. E la nostra.     

martedì 19 marzo 2013

Nicchi e la brutta storia di Pescara

C'è una squadra che sta affogando, il Pescara. Che, ormai, perde troppo spesso e che teme fortemente la B. Trascinandosi tensioni e malesseri, di ordinaria quotidianità. Arriva il momento di incontrare il Chievo, in casa, e nell'ennesima gara delicata della stagione si abbatte un'azione di gioco controversa. E, poco dopo, se ne aggiunge un'altra. Le decisioni dell'arbitro, che si chiama Mazzoleni e viene da Bergamo, sono contrarie: in entrambe le situazioni. A match tramontato, infine, si arrampica l'esigenza (lecita) di sapere, di capire. Di contestare, magari. E di chiedere (o pretendere) spiegazioni: quasi fossero un risarcimento morale. Di rimando, ci sarebbe anche una risposta. Che non piace. E che rinfaccerebbe certe parole spese in settimana dai tesserati del club, particolarmente ruvidi verso l'universo arbitrale. Brutta storia: ancorchè tutta da verificare. Brutta perché, se non altro, presuppone sanzioni severe. Per il direttore di gara, che dovrebbe attenersi ai fatti del campo e, nello specifico, di quella partita, senza soffermarsi su questioni differenti. Oppure per Daniele Sebastiani, presidente della società abruzzese, che davanti ai microfoni e all'Italia intera avrebbe raccontato una bugia. Intanto, in attesa delle valutazioni della procura federale, ormai investita ufficialmente della responsabilità di risolvere la querelle, interviene Nicchi, il capo degli arbitri nazionali: «Ognuno risponde di quel che dice, la verità verrà fuori». Lo speriamo. Anche se, anche nel pallone di casa nostra, ci fidiamo sempre di meno. E poi: «Gli arbitri non devono essere oggetto di aggressioni e contestazioni sotto i tunnel o negli spogliatoi. Nessuno è autorizzato a contestare fuori dai luoghi preposti». Può darsi. Anzi, è sicuramente così. Ma il concetto di fondo non cambia. O meglio: non si stempera la gravità dell'accusa. E quella dell'ipotizzata risposta. Che, se c'è stata, è una pessima risposta. Buona soltanto a seminare nuove macchie. E nuovi dubbi: sul calcio e su chi lo governa. Dentro il rettangolo di gioco, in questo caso. Ci ha pensato, Nicchi?

lunedì 18 marzo 2013

Conte, Pioli e il Chelsea

Bologna non ama la Juve. Come Napoli. Come Firenze. Come buona parte di Torino, del resto (sponda granata, ovvio). Come Roma. E come altri luoghi d'Italia (magari, sarà anche il motivo per cominciare a chiedersi il perché). Dove arriva la formazione di Conte, cioè, crescono i problemi: di ordine pubblico, soprattutto. Come le ultime decisioni della magistratura ordinaria confermano (sono appena piovuti diversi daspo, anche se proprio tra la tifoseria bianconera, conseguenza diretta del recente confronto diretto tra la capolista e la sua vice, in Campania). Vero: il pallone sta diventando, settimana dopo settimana, una battaglia già scritta: tra le strade, ancora prima che sull'erba. E l'allenatore leccese, infastidito dall'accoglienza di domenica in terra emiliana, si appropria di tutte le ragioni: così non si può continuare. E tanto vale espatriare, ovvero allenare all'estero. Conte, poi, nel corso del match esulta corposamente alla seconda marcatura della propria squadra, che con la vittoria di Bologna si fregia del diritto di conservare lo scudetto: non aritmeticamente, ma ragionevolmente. Tanto da sollevare l'irritazione del collega Pioli. Che dimentica, tuttavia, una regola non scritta: festeggiare è ancora permesso. A chiunque. E, dunque, anche a Conte, peraltro sempre assai abile nel respingere le simpatie altrui. Colpevole soltanto, nello specifico, di non capire certe situazioni che possono essere equivocate: ma non di peggio. E, magari, di aver approfittato della situazione per tentare di smarcarsi dalla Juve, a fine stagione. Per accettare, come si sente dire, le offerte del Chelsea. Oppure, per guadagnare solo un po' di spazio in più in sede contrattuale: aggirando l'ostacolo.

venerdì 15 marzo 2013

Il marketing di Balotelli

Il Pallone d'Oro e il nome di sempre. Messi, solo Messi. E, a rimorchio, pochi eletti. Mario Balotelli non si rassegna all'anonimato internazionale e rivela, con non poca sfacciataggine, di aver perso l'occasione di competere e, addirittura, vincere la competizione e il titolo. Per limiti caratteriali ben sottolineati dalla cronache: dentro e fuori del campo. Segno che il ragazzo comincia timidamente a calarsi nella realtà. E a pensare, prima di agire. Certo, l'affermazione è un po' forte. E, probabilmente, non tiene conto di altri dettagli: alla superiorità tecnica, per esempio, di gente come l'argentino che zittisce tutti. O di altri big che, facendo due conti, indirizzano di fatto i destini dei club per cui giocano: da anni. Nutrendosi di regolarità, innanzi tutto. Ovvio: al coloured appena rientrato in Italia e immediatamente ambientatosi nel Milan non difetta la personalità. Che, se incanalata nella giusta direzione, non può che favorirne la crescita: sotto qualsiasi angolazione. Anzi, nell'epoca della comunicazione esasperata, certi segnali servono: anche a far circolare certe ambizioni. Quelle parole grondanti di autostima, probabilmente, nascondono una semplice operazione di marketing. Cioè, il desiderio di pubblicizzare un prodotto, il proprio. E se stesso: a costo zero. E Balotelli, un ventenne che vive velocemente il proprio tempo, navigando agevolmente tra i vizi e le virtù della quotidianità del terzo millennio, questa tipologia di situazioni l'ha decodificata benissimo. Lasciandosi coinvolgere dal proprio istinto, molto spesso. Ma cavalcando anche l'onda della spettacolizzazione di ogni momento.

lunedì 4 marzo 2013

Il futebol e il ritardo della Rai

La televisione generalista si affaccia sul Brasile. E fa di tutto perché si sappia. Qualsiasi trasmissione sportiva, dal lunedì alla domenica, lo ripete puntualmente e immancabilmente, da giorni: Rai Sport ospiterà il calcio brasiliano, del quale ha acquistato i diritti. Anzi, ha già cominciato: con le dirette di un paio di match per settimana. Omettendo però di precisare, sin quando è stato possibile, che il campionato Paulista non è quello nazionale, ad esempio. Ma solo un torneo statale: che noi potremmo tradurre con l'etichetta di regionale. Il primo appuntamento offerto (Linense-Ponte Preta) altro non è, per intenderci, che l'incrocio tra una società di terza serie e una di quella che, al di là dell'oceano, chiamano Segundona. Come se, in Italia, offrissero la diretta di Carpi-Modena. O di Avellino-Juve Stabia. Giusto per capirci. L'approccio al campionato vero e proprio, ovvero il Brasileirao, avverrà più tardi: per il semplice fatto che la kermesse non è ancora cominciata (se ne parla tra tre mesi). Il punto, tuttavia, non è questo. Disarma un po', piuttosto, sapere che la Rai scelga di avvicinarsi al calcio brasiliano, considerato ancora quello tecnicamente più evoluto del pianeta, ma solo sulla scia dei luoghi comuni, proprio nel momento storico peggiore. Non è un mistero che il pallone verdeoro stia ultimamente battagliando contro la scomparsa di talenti (mai così pochi, in un Paese dalle sorgenti credute inesauribili), contro una subdola crisi di gioco (le formazioni brasiliane, anche quelle più titolate, si esprimono mediamente male, anche per la cattiva abitudine di preferire la quantità e la sostanza, a dispetto della forma: incredibile, ma vero), contro la progressiva spersonalizzazione del gioco (lo ammette la stessa critica brasiliana e commentatori di prestigio come Tostão), contro il processo dell'eccessiva europeizzazione dei moduli. E se il futebol, ormai colonizzato da mediani che corrono e azzannano, si sta industriando a riportare dentro i confini nazionali antichi simboli come Ronaldinho o Pato (e anche Robinho potrebbe rientrare alla base), preoccupandosi di acquisire le prestazioni di vecchie conoscenze come Seedorf, un motivo ci sarà pure. Gli operatori di mercato europei, del resto, si sono accorti delle realtà da tempo. Ripiegando su altre aree del Sudamerica: la Colombia, ad esempio. Oppure il Cile. Oltre che l'Argentina, ovviamente. Solo la Rai sembra non saperlo. O non averlo capito. L'operazione commerciale, qualche anno addietro, si sarebbe rivelata intelligente. E vincente. Ma arriva con qualche anno di ritardo. Di colpevole ritardo.

venerdì 22 febbraio 2013

Brutti, grassi e vincenti

Tre a zero in casa. A favore altrui, contro qualsiasi pronostico. E due a zero fuori, mel match di ritorno. Sempre con saldo negativo: ampiamente previsto, questa volta. Tanto, a quel punto, è.già tutto compromesso. Ed è meglio risparmiare forze. In tutto, cinque gol. A zero. Il superfavorito Napoli è fuori dalla Europa League. Passano i ceki di Plzeń: amareggiando la torcida campana e anche chi avrebbe volentieri scommesso sulla formazione di Mazzarri, in prospettiva. I cattivi pensieri della gente che tifa, peraltro, si acuiscono più tardi, oltre i titoli di coda. Davanti ad una di quelle immagini che celebrano l'impresa di un club di seconda fascia. La pessima silhouette del capitano del Viktoria, a torso nudo, infastidisce. Il profilo in evidente sovrappeso schiaffeggia l'Italia della tattica, delle doppie sedute di allenamento e del professionismo spinto. Ma spiega quanto possano aiutare, in mancanza di altre qualità, la voglia, il sacrificio, la mentalità, il cuore, il carattere. E le motivazioni. Che il Napoli aveva già deciso di tributare al proprio campionato, unico pensiero e obiettivo sostenibile. E il Viktoria Plzeń all'Europa. Dove non esiste nessun torneo, quello italiano a parte, in cui si bruciano tutte le energie nervose. E dove lo stress si accumula e si concentra, svuotando mente e gambe. E, sì, anche la pancia: che è però il simbolo di un calcio grezzo e dopolavoristico, ma ancora verace. Che, talvolta, si permette di non premiare il migliore e neppure il più ricco. E che, tuttavia, ci impedisce di cadere nel vortice pericoloso della prevedibilità. Non è affatto male, dopo tutto.

mercoledì 20 febbraio 2013

La serie D e le scommesse

Santi, eroi, navigatori. E appassionati di scommesse. Gli italiani non si fanno mancare niente, appena si apre lo spazio per arrampicarsi, per inseguire il sogno o il guadagno facile. Le puntate copiose nelle innumerevoli sale da gioco virtuali e il giro di affari sistemati assai spesso al di là della barriera dell'illecito hanno incacrenito il pallone di queste e di altre contrade: la globalizzazione, in questo caso, è totale. Riversando sospetti e, tante volte, molto fango sul calcio dei professionisti. E, di conseguenza, ingolosendo progressivamente gli operatori del settore e, a rimorchio, pure i signori del sommerso. Prima o poi, cioè, doveva capitare: le scommesse approdano pure tra i dilettanti. Ufficialmente. La notizia è vecchia di pochi giorni: si potrà puntare anche su alcuni incontri dei campionati di serie D. Sui quali, alla lunga, diventerebbe praticamente impossibile vigilare seriamente, compiutamente e puntualmente: per una questione, soprattutto, di grandi numeri (troppi gironi, troppe squadre, pochi riflettori). La novità piacerà a molti, giusto. Ma avvilisce altri. Qualcuno, anzi, si è pure ribellato: come, ad esempio, la Fondazione Taras 706 ac, associazione tarantina che, tra l'altro, irrobustisce l'ossatura societaria del principale club cittadino, per il semplice fatto di detenere alcune quote. Consigliando i suoi più alti rappresentanti ad organizzare persino un incontro con il presidente della Federcalcio di Bari, Tisci: che, evidentemente, dovrà incaricarsi di riportare un certo disagio ai suoi diretti superiori. Iniziativa lodevole, ma non sappiamo di quale utilità: sinceramente. Anche a fronte di una realtà diversa. Perchè pochi ricordano che, sul calcio dei dilettanti, si scommette già da tempo. E, per farlo, è (era) sufficiente spostarsi oltre i confini nazionali. Con un click, con un link. E con chissà quali altri mezzi. E perchè non tutti, magari, viaggiano per i campi di quinta divisione: dove, soltanto la scorsa stagione, chi c'era ha visto tutto quello che non avrebbe voluto vedere. E anche di più.

mercoledì 30 gennaio 2013

Spesa ingente, ritorno sicuro

Basterebbe riesumare quella frase un po' pesante e sferzante, neanche troppo datata, sganciata più per deviare la pressione mediatica che per sbarrare la strada ad un acquisto importante, per affondare la lama. «Balotelli è una mela marcia», raccontò Berlusconi. Ma la retorica facile non ci attira e non ci garba. Troppo scontato, meglio di no. Eppure il bad boy che ha inquietato l'ambiente del Manchester City, dopo aver irrigidito l'altra parte di Milano, arriva al Milan, quasi ai titoli di coda della seconda sessione di mercato. Diventando il top player che Allegri avrebbe voluto: molto più di Kaká. E proiettando idealmente il club verso una dimensione più consueta: quella delle realtà che possono e vogliono spendere. E, quindi, competere. Operazione rischiosa, è vero: perché il ragazzo continua a indispettire, dentro e fuori dal campo. Perché la sua redenzione è rinviata, mese dopo mese, da ormai qualche anno. Perché un big, da solo, non basta a quadrare i conti, se il collettivo non decolla mai per davvero. E a recuperare lo spessore perduto. Ma, lo sappiamo, il pallone - oggi - è uno dei problemi dell'ex presidente del Consiglio, ma non il problema. Che, piuttosto, si chiama campagna elettorale. Alla quale, tuttavia, il calcio e il Milan possono portare giovamento, Cioè, pubblicità. Investire (venti milioni) significa, dicono i più informati, guadagnare quattrocentomila voti: nel bacino d'utenza rossonero, immaginiamo. Altro che programmi, battaglia sull'Imu e guerra dichiarata alla magistratura. Spesa ingente, ritorno sicuro: ragionassimo per logica, non ci crederemmo. Ma così è, se vi pare. Quanto basta per avanzare sospetti sulla nostra ingenuità. Quanto basta per depotenziare la già flebile considerazione verso questo Paese e la folla impersonale che lo abita. Quanto basta per capire quale sia, per i professionisti della politica, la considerazione nei confronti della tifoseria. E quindi della gente. Che, prima o poi, magari senza troppa convinzione o con poco piacere, vota.

martedì 29 gennaio 2013

Roma, due anni di lavoro. Persi

Permetteteci di ritornare su Zeman. Che si apprezza per quello che è, per quello che dice e per come lo dice. Oppure non si tessera proprio: bypassando complicazioni eventuali e future. La storia del boemo è lunga. E pure densa di avvenimenti. Solitamente rumorosi. Il suo calcio è, molto spesso, il più apprezzato. Ma anche il più avversato: e ognuno è libero di sposarne i dogmi o di delegittimarlo. Comunque, chi lo ingaggia, in estate, è perfettamente consapevole delle caratteristiche del suo modo di intendere il pallone e delle abitudini del personaggio. Non è tecnico da partenze spinte: anche perchè non è facile deglutirne gli schemi e le modalità di allenamento. Soprattutto se il materiale che i club volutamente e puntualmente gli consegnano va opportunamente valutato, modellato e formato. In cambio dei risultati, chiede tempo. E, se una società è affamata di certezze, è preferibile che si rivolga ad altri: investendo, magari, su uomini già pronti per vincere. Non è, oltre tutto, uomo di facile gestione: e certi attriti vanno messi in conto. Ovvio: la Roma, nello specifico, possiede una propria storia, si nutre di ambizioni che non può ignorare e, soprattutto, è quotata in borsa. Senza contare che anche le migliori intenzioni possono franare sulla crudezza di determinate parole: che Zeman, nel rispetto di se stesso, non ha evitato neppure nella capitale. Ma ci pare di capire che il problema non nasca essenzialmente dalla complicazione di un rapporto tra l'allenatore e la società. Se è vero, come è vero, che il destino del boemo si compierà alla fine di questa settimana. E che dipenderà dal prossimo risultato. Quel risultato che, in fondo, è l'unico vero strumento di giudizio, per chi siede in panchina. Del resto, vale per chiunque: non ci meravigliamo. Eppure, l'eventuale defenestramento di Zeman non ci convincerebbe ugualmente. Innanzi tutto perché la lievitazione di un gruppo fondamentalmente giovane e che punta a solidificarsi gradualmente (erano queste le condizioni o le previsioni) passa attraverso molti momenti di alta e pure di bassa pressione. La classifica, giusto, non è ancora brillantissima e mancano punti: ma ci sembra che le priorità, agli albori della stagione, fossero altre. Una per tutte: il lavoro di prospettiva. Senza contare che, tra un'ingenuità e una cointroindicazione, qualcosa stia lentamente affiorando. Come conferma il rendimento medio di certi elementi su cui puntare in futuro. Cacciare ora Zeman sarebbe sostanzialmente ingiusto. E sarebbe inopportuno liquidarlo anche prima del prossimo campionato: due anni è l'arco di tempo minimo, per un certo tipo di operazione tecnica. Concordata dietro le scrivanie, è meglio ricordarlo. Sollevarlo dall'incarico, infine, per la Roma significherebbe aver tradito un progetto in cui la dirigenza sembrava crederci davvero. E aver disperso un anno di lavoro. Anzi, due.  

domenica 27 gennaio 2013

Il calcio delle ambiguità

Al di là delle rivalità e delle fede di ciascuno: la Juve che si lamenta di una conduzione arbitrale (quella della squadra diretta dal torrese Guida, nello specifico) è una piega del gioco. E, teoricamente, ci sta: i soprusi infastiscono tutti, anche i più e meglio protetti. Anche perché, nel circo del pallone di questo Paese, ogni sollevazione ufficiale è una sorta di foglio di garanzia. E aiuta a calamitarsi addosso futuri favori: chi dice il contrario mente. Sapendo di mentire. Ingiusto, sì: ma normale. Che la Juve, poi, si infuri come è accaduto ieri, immediatamente dopo il novantesimo del match in cui il Genoa le ha strappato un punto sull'erba di casa, questo fa un certo effetto. Sinceramente. Non osiamo immaginare, peraltro, cosa dovrebbero pensare gli avversari diretti (il Napoli ingiustamente punito in Supercoppa, oppure la stessa Inter, così come il Milan, che ancora fatica a digerire il caso-Muntari) e, soprattutto, i club politicamente più deboli, vessati da decenni interi. Ma si vive dei fatti del presente e il passato è un capitolo chiuso: vero. E anche a Torino avranno pure il diritto di ribellarsi, prima o poi. Non regge, però, l'idea (bianconera) di rinfacciare al mondo le frasi spese dagli antogonisti, in tempi diversi e a situazioni invertite. Perchè le stesse parole (di circostanza e di convenienza) nascono ovunque: anche e soprattutto in riva al Po. Basterebbe ricordarsene, quando serve. Su una cosa, però, il direttore generale della Juventus, Marotta, non sbaglia: per un match del genere, la designazione di Guida, un arbitro che arriva da Torre Annunziata, praticamente alle porte di Napoli, cioè la città che spinge la concorrente più pericolosa, è infelice. E, aggiungiamo noi, inopportuna. Perché il sospetto non aiuta a migliorarci. Perché esistono delle logiche, che il settore arbitrale finge di dimenticare. Perché il nostro calcio non è ancora maturo per abituarsi a se stesso. Perché il pallone, in Italia, non ha bisogno di altre iniezioni di diffidenza. Nè di equivoci e di ambiguità: non ce lo possiamo permettere. 

lunedì 21 gennaio 2013

Il campionato delle domande consuete

Dai canali generalisti ai salotti televisivi più sperduti, la domanda più banale e scontata è anche la più spesa. Da almeno due mesi, nessuno - ma proprio nessuno - resiste alla tentazione di chiedere e chiedersi (più per abitudine o per pigrizia professionale, forse, che per esigenza tangibile) chi può fregiarsi del diritto di considerarsi lo sparring partner ufficiale della Juventus nella lotta ad un titolo che, piuttosto, sembra già assegnato. E non da ora. Il giro di opinioni non si è mai fermato. E non si è arreso neppure davanti alla prima considerazione di fondo sgorgata dall'ultima domenica di ordinario pallone: la flessione dettata dal pesante richiamo atletico impartito da Conte nel corso della pausa di metà stagione, cioè, sembra quasi superata. Soliti quesiti, dunque: e, quindi, solite risposte. Che, probabilmente, non tengono in adeguata evidenza due o tre verità. La Juve, ecco la prima, è l'unica squadra veramente solida del campionato, dal rendimento costante, ovvero credibile. Il plotone delle inseguitrici (si fa per dire) è, di contro, quello che è: altamente influenzabile dalle situazioni del campo, troppo folto per evitare conflitti di interesse (tutti tolgono punti a tutti, settimana dopo settimana) e incapace di mantenere il passo del leader. Anche quando il leader rallenta. Infine, certi episodi (questa volta, il raddoppio della Lazio, a Palermo, viene ingiustamente cancellato dal direttore di gara) finiscono per trattenere sempre chi insegue: ma questo fa parte della nostra storia. Il verdetto finale, sostanzialmente giusto, è già scolpito. E i tentativi, anche i più lodevoli, di mantenere vivo l'interesse di appassionati e addetti ai lavori non reggono più. Bisogna farsene una ragione, punto. Intanto, la capacità (e la voglia) di frugare nelle pieghe del torneo sembra esaurita. Gli interrogativi più abusati, quelli più popolari e istintivi, sopravvivono solo per inerzia. Ma le domande, quelle vere, sono finite. Oppure la stampa sportiva italiana, irrimediabilmente appiattitasi nel tempo, non possiede più fantasia.

lunedì 14 gennaio 2013

Amauri e quel gol dimenticato

Amauri Carvalho de Oliveira è un brasiliano senza troppa storia, nel pallone del suo Paese. Un sudamericano snobbato dalla sua Seleção e, anche per questo, italiano per scelta. Quando esigenza e riconoscenza verso la terra che l'ha adottato hanno finito per confluire in un iter burocratico tracciato nel laboratorio degli oriundi. Certo, da allora qualcosa è cambiato: le porte della Nazionale, quella della patria nuova, non si sono più aperte. Colpa di un infortunio, anche abbastanza grave. E di una conseguente involuzione tecnica che ha tranciato il rapporto tra il ragazzo di Carapicuiba e la Juve, smistando il destino dell'artigliere tra Firenze e Parma, dove attualmente gioca. La tifoseria bianconera, infatti, non lo ricorda volentieri. Come i fischi sonori e la disapprovazione popolare emersa al Tardini, ieri, nel corso del match in cui hanno incrociato i tacchetti la formazione emiliana e quella di Conte, dimostra. Roba da curva, nessuna sorpresa. Certe dinamiche del tifo sono ormai ampiamente tollerate e deglutite. Eppure, proprio la Juve, ad Amauri deve non poco. Quel gol del brasiliano, all'epoca vestito con la maglia della Fiorentina, che stese il Milan a San Siro, meno di un anno fa, significò praticamente scudetto. La gente che tifa, però, non se n'è ricordata. Oppure, ha preferito dimenticarlo. Scegliendo la via dell'ostilità diretta, senza filtri. Del resto, questa è un'Italia che dimentica in fretta. E che non si piega troppo volentieri al sentimento di riconoscenza. Così è: e non moriremo per questo. E poi, è chiaro, vanno bene la contestazione civile e il gioco legittimo delle casacche: il pallone, da sempre, è passione da guelfi e ghibellini. Ma la gratitudine, in certi casi, sarebbe un ingombrante dovere.

mercoledì 9 gennaio 2013

Di Canio, ambizioni da cullare

Carismatici, riveriti e ben pagati. Spesso, vincenti. E, talvolta, anche per questo, antipatici. Se non, addirittura, spocchiosi. O esageratamente esigenti: quasi da rischiare il processo per autoritarismo. Perchè, anche se tecnicotattica, sempre dittatura si chiama. Molto spesso, intolleranti: al giudizio, alla critica. Quella che arriva dall'esterno. E pure dall'interno. Quasi sempre infastiditi dal pubblico confronto che prova a scavare e spigolare, saltando gli ostacoli delle analisi preconfezionate. O delle parole comodamente messe in croce per acquietare la curiosità dei meno esigenti. O di quelli che si accontentano del già sentito. Spregiudicati, quando serve: ai bordi del campo e davanti ai microfoni. Comunque, gelosi della propria autonomia. Del proprio recinto. E, ovviamente, del proprio stipendio. Che non è un dettaglio marginale. E che però finisce per ricompensare stress, amarezze, insuccessi, polemiche, pressioni, contestazioni. E, in certi casi, rivolte. Quello stipendio che rifonda dal perenne pericolo di congiure. Ed esoneri. Che, certe volte, para persino le decisioni più drastiche: i costi aggiuntivi sono sempre un deterrente, per i club. Brillanti, ombrosi, istrionici: ogni caudillo possiede il suo marchio di fabbrica. E non fa niente per nasconderlo. Gli allenatori preferiti del gran circo del pallone, però, si espongono sempre. Più dei colleghi meno quotati o meno fortunati: del resto, il potere contrattuale di ciascuno è saldo. Nessuno, tuttavia, deve penare troppo per ottenere vantaggi accessori: prima per tutte, la base qualitativa dell'organico in cui operare. Basta chiedere: qualcosa arriverà, prima o poi. Anche in tempi angiusti come questo. Ma Paolo Di Canio non è ancora un top coach: allena in Inghileterra, a Swindon, ma in quella che è considerata la nostra terza serie. Insegue un obiettivo, che è poi anche il sogno di conquistare la promozione. Solo che la sua società ha limitato i budget di spesa. L'allenatore, comunque, non si è affatto rassegnato. E ha già informato club, tifoseria e stampa che, se necessario, provvederà a sovvenzionare personalmente la prosecuzione progetto. Attingendo dal proprio conto in banca: che, presumibilmente, non è lo stesso di Mourinho. O di Capello. O di Ancelotti e Ferguson. L'ambizione, evidentemente, porta anche a questo. Oppure, l'entusiamo più sano è davvero ancora intatto. L'iniziativa di Di Canio, altrimenti, può essere decodificata come un investimento sul futuro: il proprio. Di certo, però, il tecnico romano si è guadagnato colonne sui giornali, cioè pubblicità. Considerazione tra la sua gente, ovviamente. E, magari, il rinnovo automatico dell'ingaggio. Gente così fa bene ai club: e, tra le scrivanie dello Swindon Town, il particolare non sarà passato inosservato. 

lunedì 7 gennaio 2013

Messi, noblesse oblige

Il Pallone d'Oro a Messi completa la sua quarta edizione. Tutto previsto. Tutto scontato. E tutto giusto, considerando lo spessore del giocatore, la prolificità dell'attaccante, la serietà dell'uomo, la continuità del numero uno e la tecnica indiscutibile di un argentino piccolo e sgusciante. Corsa a tre, avevano detto: tra lui, il portoghese Cristiano Ronaldo e uno spagnolo, Iniesta. In realtà, però, chiunque attendeva l'univo verdetto possibile. L'unico verdetto pronosticato e pronosticabile. Che aggiunge lustro a lustro: nessuno, prima di lui, aveva vinto il premio per quattro volte. Consecutive, oltre tutto. E nessuno, peraltro, potrà ribellarsi: il successo è blindato dalla realtà del campo. Nessuno vorrà discuterne, per una questione di ragionevolezza. Però, è difficile capire le coordinate che spingono la piccola folla che vota, orientando il giudizio finale. Perchè non sempre il più bello e il più bravo, oppure il più efficace dentro il rettangolo di gioco, ha potuto fregiarsi del titolo. Pensiamo a Maldini, buggerato almeno un paio di volte, anni fa. Oppure al tedesco Sammer, il preferito nel 1996, dopo aver dribblato qualsiasi proiezione. Tante volte, piuttosto, la votazione ha premiato un vincitore: di un campionato (meglio se del Mondo o, in mancanza, d'Europa), di una coppa di prestigio. Perchè solo chi vince può continuare a farlo impunemente: lo stesso Sammer è un esempio. Come Cannavaro, del resto. Non quest'anno, però: in cui Messi ha fallito, con il Barcellona, il traguardo dentro e fuori i confini nazionali. Al contrario di Iniesta, campione del mondo con la Spagna. O dello stesso Cristiano Ronaldo: che, almeno, si è guadagnato la Liga con il Madrid. Ma ogni votazione, si sa, possiede i suoi segreti. E l'illogicità delle sue logiche. Che, spesso, aggrediscono il buon senso. O, se non altro, la coerenza. Senza che ce ne voglia Lionel Messi: che resta il più forte dei cinque continenti. Ne siamo consapevoli: tutti.