Dunque, si parte. Più o meno
ufficialmente. Prima, i sorteggi dei gironi: proprio in questi giorni. Poi, la
scelta delle location: affinché
chiunque possa prepararsi come meglio conviene. Infine, tutto il resto. Anche
se gli stadi non sono ancora ultimati. Malgrado troppi inconvenienti separino
la teoria dalla realtà. Nonostante un dibattito acceso animi e attraversi la
società brasiliana. Profumo di Mondiali, diciamo così. Netto e delineato. Ovunque
e, innanzi tutto, nel più grande dei paesi del Sudamerica. Dove non esiste
alternativa al successo: per una questione di blasone, ovvero di tradizione.
Perché, ovviamente, giocare in casa è tutta un’altra cosa. E infine perché, dall’altra
parte del mondo, una formazione europea non ha mai vinto il titolo. Tra
orgoglio, sicurezza, nazionalismo e passione, striscia pure un po’ di
arroganza. E’ quell’istinto di superiorità, quel quoziente di presunzione che,
del resto, corteggerebbe tutti: l’Argentina, se i tacchetti si incrociassero,
la prossima estate, tra Baires e Rosario. La Germania, se la palla
rotolasse a Monaco o ad Amburgo. La
Spagna, se la kermesse
fosse ospitata ad ovest dei Pirenei. L’Italia, se il campionato si disputasse a
queste latitudini. E potremmo continuare. Di certo, però, da un po’ di
settimane la macchina organizzativa brasiliana, la stessa federazione verdeoro
e l’ambiente tutto provano ad alzare il livello di tensione emotiva. E non solo
per occultare le proposte, lo spessore intellettuale e il sèguito, anche e
soprattutto mediatico, del Bom Senso FC, che poi è un movimento di recente
costituzione, autogestito da calciatori impegnati nel Brasileirão e da addetti ai lavori, ormai convinti
dell’improcastinabile necessità di modificare vecchie abitudini e calendari
agonistici. In queste giorni, anzi, ci mette del suo Felipe Scolari, il
commissario tecnico della Seleção: il Brasile, afferma candidamente, vincerà il
Mondiale. Semplice e chiaro. Rumo ao hexa,
allora. Proviamo a guardare un po’ più in là e capiamo le intenzioni: i
problemi, dal punto di vista organizzativo, non difettano e occorre pur
cominciare ad accendere l’opinione pubblica. A coinvolgere la gente. Il
problema, però, è che la nazione pentacampeã ha già
ospitato i Mondiali, esattamente sessantatre anni fa. Perdendoli. Davanti ad un
Maracanã lotado e a un Uruguay
irriverente. Fu un disastro, allora: e non soltanto dal punto di vista
squisitamente calcistico. Anche quella volta, il Brasile si avvicinò al torneo
favorito, orgoglioso, sicuro di sé e arrogante. Non bastarono Ademir, Zizinho e
Jair. Poi, il Paese intero si abbattè su Barbosa, il portiere vessato e,
quindi, dimenticato. Il duemilaquattordici, invece, è il tempo di Neymar, ma
anche dei Luís Gustavo, degli Hulk, di Bomfim
Dante. Tutt’altro materiale, onestamente. Che la vittoria nell’ultima Confederation Cup della Seleção, peraltro, rischia di aver
sovrastimato eccessivamente. Ci pensi un attimo, Felipão, prima di sbilanciarsi ancora.