Il quattro maggio è il giorno della memoria, nella Torino granata. E
anche in tutta l’Italia del pallone. E ogni quattro maggio, da sessantacinque
anni, si sale sul colle di Superga, per raccogliersi e per ricordare. E’ un
rito, una tradizione. Un’esigenza. Questa volta, il quattro maggio coincide con
la domenica del pallone. Che segue il sabato del pallone e procede il lunedì
del pallone: il sistema, si sa, progetta il business
e pretende che sia festa tutti i giorni (ma poi, in fondo, che sarà mai: e poi
ci siamo un po’ tutti abituati, forse perché ci va benone anche così). Ad ogni
modo, domenica quattro maggio si gioca. O meglio: gioca anche il Torino, a
Verona, sponda Chievo. Come da calendario: quello che, puntualmente, viene
stravolto da anticipi e posticipi più o meno telegenici. Ma, se il Torino
gioca, la partecipazione al giorno della memoria diventa un’operazione
logisticamente quasi proibitiva. La soluzione, però, esisterebbe. Semplice
semplice. Dirottare il match in altra data. Posticiparlo: come
Juventus-Atalanta. O come Napoli-Cagliari. Oppure, anticiparlo. Troppo
semplice: dunque, improponibile. La
Lega si oppone: il calendario è confezionato, ormai. Oppure:
è opportuno salvaguardare la regolarità del torneo. Perché il Torino, tanto
tempo dopo, torna a mirare ad un piazzamento Uefa. Che è il medesimo obiettivo
dell’Inter, del Parma e del Milan. Ma anche della Lazio e del Verona: che
infatti, incrociano i tacchetti con ventiquattr’ore di ritardo. Di lunedì,
appunto. Ma anche perché il Chievo deve ancora conquistarsi la salvezza.
Esattamente come il Sassuolo, che però torna in campo martedì. Il Torino, a
questo punto, si sentirà pure ingiustamente defraudato di un diritto: possiamo facilmente
immaginarlo. Ma chi non possiede, all’interno del Palazzo, un peso politico
specifico si sforzi di scovare una motivazione. Oppure ne prenda atto. In
silenzio, possibilmente. Tanto, è lo stesso. E chi possiede un attimo di tempo
per pensare, probabilmente, si sentirà sufficientemente raggirato. Problemi
suoi, comunque. La Lega
e il movimento calcistico del Paese più buffo d’Europa sono blindati dalle
proprie certezze, dalle proprie convinzioni. Peggio per il Toro, se ogni sette
anni il quattro maggio è domenica. E se ogni domenica si continua a giocare,
magari in quattro o cinque campi: con le curve chiuse, dentro stadi fatiscenti,
sul filo di polemiche roventi e risse da osteria, in mezzo ai venti del
razzismo becero, nel vortice cieco della sudditanza psicologica della classe
arbitrale, producendo un prodotto tecnicamente scadente. Va tutto bene così com’è:
e il Palazzo è felice. Si adeguino tutti, piuttosto. E poi, se in Brasile l’Italia
dovesse resistere ai pronostici che assistono la concorrenza e regalarsi un
altro titolo mondiale, chissà come e chissà perché, qualcuno tornerà anche a raccontarci
quell’antica barzelletta: è tutto merito del campionato più bello e più
organizzato dell’universo. Allora, però, la gente non sospetterà neppure di
essere stata raggirata, una o più volte. E, sicuramente, alla barzelletta
crederà pure. Spacciandola per storia vera.